Federico II di Orazio Sbacchi
FEDERICO II
Ancestrali pregiudizi, consolidatisi nel tempo, determinano molto frequentemente innaturali contrapposizioni culturali che refluiscono, con negative conseguenze, nei rapporti interpersonali all’interno di sodalizi multietnici e/o multinazionali, che viceversa dovrebbero costituire momento di sintesi operativa che, superando la finitezza di posizioni refrattarie alla critica pro-veritate, determinano scarsa efficienza e inutili appesantimenti.
Il superamento di tale momento critico non può escludere una preliminare, scevra da preconcetti, conoscenza del mondo culturale e della Weltannschaung del proprio interlocutore con la cognizione, diretta e serena, del suo mondo, della sua cultura, della sua storia.
Ciò si premette per affermare viceversa che la dicotomia tra cultura classica mediterranea e tradizione europea germanica è stata superata in contesti storici culturali risalenti all’inizio del secondo millennio, sviluppatisi sino al secolo scorso, e che hanno trovato il culmine culturale durante la presenza degli Hohenstaufen in Sicilia e nell’Italia meridionale prima e nel periodo successivo con la fascinazione illuministica nel diciottesimo secolo e conseguente sviluppo della memorialistica e della letteratura odeporica.
II settecentesco viaggio in Italia, divenuto quasi una moda per oltre un secolo, non ha finalità che oggi definiremmo turistiche, ma si sviluppa secondo un più ampio orizzonte psicologico, sentimentale, culturale; quasi la ricerca di una Thule del Sud, favolosa e dolce, fantastica e magica.
Nelle pagine, sterminate, tramandateci da letterati, viaggiatori, archeologi dell’Europa Centrale e in particolare della Germania, si rinviene, più che in pagine di autori italiani, la percezione e la descrizione dell’eterno dissidio, nella vita del Sud, tra il limbo delle memorie e il travaglio di inutili rivolte.
Volendo però seguire un filo non solo logico, ma, per comodità espositiva cronologico, imprescindibile e accennare, ancorché brevemente all’esperienza, in un certo senso rivoluzionaria (nell’accezione etimologica) degli Hohenstaufen.
La Sicilia fu per gli Hohenstaufen il paradiso sognato dai Germani, e per Goethe la chiave di tutto. Quando Federico II vide di là del mare la terra promessa dalla bibbia, disse con la sua inclinazione al blasfemo che Jehova non aveva conosciuto la Sicilia , sennò non avrebbe avuto parole cosi alte di elogio per la terra promessa agli ebrei.
Il suo regno nell’Italia Meridionale, e in particolare in Sicilia, dove aveva trascorso la giovinezza, restarono sempre il suo unico vero amore.
II rapporto di Federico con la Sicilia e con i siciliani fu un rapporto d’amore; allo stesso modo che il dio d’Israele s’era scelto un popolo dalla folla dei popoli della terra, anche l’imperatore, il re dei re, il signore dell’impero aveva eletto il popolo di Sicilia.
La Sicilia era la terra promessa, i Siciliani il popolo eletto al quale si appoggiava “come il capo riposa su un cuscino“.
E successivamente, anche se dopo non lunga e turbolenta vita si spense, volle che le sue spoglie riposassero a Palermo, dove tuttora, in un sacello di porfido. in Cattedrale, sono oggetto di venerato rispetto da parte della comunità tedesca.
E con gli Hohenstaufen giungono in Sicilia gli uomini dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici, che al seguito dell’imperatore lasciano le brume baltiche e si insediano nel Mediterraneo. Il quarto Gran Maestro dell’Ordine, ma suo vero fondatore, Hermann Von Salza, riceve la sua educazione alla raffinata corte palermitana; in Sicilia esalta e sviluppa la sua grande abilità diplomatica, crea insediamenti militari, fortifica città, fonda Augusta, e dai cistercensi acquisisce la basilica della Magione, contigua agli acquartieramenti delle truppe, dove i Cavalieri discutono, dibattono e preparano le strategie delle loro attività.
La Sicilia diviene inconsapevole punto di ritrovo di baroni baltici, junker prussiani, cavalieri ruteni e carpatici.
Le precedenti considerazioni sul rapporto sussistente tra Federico e la Sicilia, non possono però escludere una breve esegesi dell’esercizio della sovranità come incarnato nella maestà federiciana.
E’ ovvio che comportamenti ed azioni vanno criticamente contestualizzati in una vicenda che si svolge oltre 800 anni fa, in una cultura e in un contesto, per molti versi, a noi dissimile; pur tuttavia la cultura staufica dell’esercizio del potere può diventare magistero archetipico per contesti attuali e in realtà fattuali assolutamente diverse.
Usando un termine corrente possiamo affermare che la leadership di Federico fu esercitata nel rispetto delle diversità, con autorità coniugata con l’autorevolezza e con il ricorso all’autoritarismo solo nel caso di iniziative apparentemente impopolari.
Un solo obiettivo guidò sempre la politica di Federico II: l’interesse dello Stato e il quadro complessivo dell’Impero, mutando, ove occorresse, l’indifferenza dei Principi in partecipazione interessata alle vicende dell’Impero.
Nessuno ritenne pregiudicate le proprie peculiarità, ma, viceversa, tutti e ognuno pensavano fosse loro vantaggioso integrarsi in una realtà imperiale teleologicamente votata all’interesse della collettività.
Determinante, in tale operazione di sincretismo operativo, fu la capacità di esaltare le energie latenti anche in forze che gli si opponevano, quasi che per lui non esistessero energie inutilizzabili.
I Saraceni, staccati a viva forza dalle loro terre e dal loro passato, si persuasero che il loro benessere transitava attraverso la cieca sottomissione all’Imperatore, ne divennero i fedelissimi giannizzeri quasi gioiosi di essere schiavi.
La presenza musulmana diviene organica allo Stato, ne viene sfruttata la cultura e la capacità artigianale e artistica in una sinergia operativa dove le finalità complessive dello Stato prescindevano da tatticismi etnici e corporativi.
E se iniziative contro i Baroni, infidi e traditori, furono intraprese con l’eliminazione di privilegi particolari, tutto fu in funzione degli interessi superiori dell’Impero.
In campo religioso ciò si affermò e si realizzò dando ampio spazio alla tolleranza, sia nei confronti degli islamici, che dei greco-ortodossi e degli ebrei; nessuno fu mai perseguitato per la sua fede, ma fu considerata eresia soltanto la mancanza di una fede.
La edittale codificazione federiciana del diritto pubblico e amministrativo rivoltò tradizioni e costumi, e in essa confluirono principi e valori tali da farla giustamente considerare l’apoteosi, sia della giustizia, che della potenza federiciana.
Forza del diritto tanto più presente quanto a più soggetti egualitariamente conferisce diritti prima non posseduti. La cogenza della norma, la sua ineluttabilità, sono compensate dalle garanzie offerte; fanno forte il destinatario dell’imperium, ma, parimenti, esaltano la potenza dell’autorità dalla quale promanano.
L forza della norma, aldilà di quella che è la sua cogenza, è ontologicamente derivata dal giusto equilibrio di doveri e di garanzie con la conseguenza – naturale – dell’autorevolezza della fonte dalla quale promana e dall’autorità del soggetto promulgatore.
L’eguaglianza dinanzi alla legge non si appiattì, però, in amorfo egualitarismo, ma fu rispettosa delle peculiarità delle singole etnie; a mò di esempio, si ricordi 1’esperienza applicative della gestione dei beni costituenti monopoli di stato, considerati di interesse collettivo e amministrati da fiduciari dell’Imperatore, ma la cui gestione – oggi diremmo aziendalistica – fu devoluta alle singole collettività di talchè gli ebrei lavoravano la seta, i greci i cordami, gli arabi il sale e cistercensi gestivano gli uffici pubblici.
Quindi, esercizio imperiale dell’autorità per integrare popoli e razze, culture e mores, per ricostituire la pax augustea e rinverdire la romana aurea aetas; e della giustizia 1’Imperatore deve essere Padre e Figlio, Signore e Servo.
La ricchezza culturale ed economica mezzo e fine per il consolidamento dell’Impero e il perseguimento della pace. Se occorre, cooptando ed integrando gli ostili, come nel caso emblematico del Conte Enrico di Malta, pericoloso corsaro ed infido nemico, nominato comandante della nuova flotta.
Il grande, indiscusso merito di Federico fu quello di capire come debba trattarsi la “materia umana” nelle sue eterogenee presenze siciliane, in ciò si esaltò la sua indiscussa vocazione a leader e la sua imperiale primazia.
Come era diversa la “materia” del Nord da quella del Sud, così doveva essere diverso il modo di trattarla; in Germania Federico aveva sciolto e liberato quelle forze che lui riteneva dovessero reggere il mondo; in Sicilia e in Puglia, in Campania e in Capitanata, dove tali sostanze fecondatrici erano più presenti e abbondanti che in Germania e si sarebbero distrutte a vicenda o sarebbero appassite miserevolmente, dovette frenarle o imbrigliarle, per farle poi risorgere, regolate, attraverso un processo di palingenesi rinnovatrice che le coordinasse e le esaltasse.
E ciò avvenne tramite l’esercizio illuminato della funzione di leader (rectius imperator) gestore perfetto delle diversità nell’unita.
Neanche la fine degli imperatori svevi recide il legame tra l’Italia e la Germania; in Sicilia si avvicendano spagnoli e francesi, ma il risveglio illuministico del settecento, dopo secoli di eclissi e di oblio, con il diffondersi e lo svilupparsi della cultura odeporica del Grand Tour, riporta in Sicilia gli esponenti più significativi della Kultur germanica. Non è più vero quanto sbrigativamente affermato da Creuze de Lesser che “l’Europe finit a Naples“-
Studiosi della classicità greca e romana, filosofi, storici, politici e aristocratici di matrice germanica prediligono la Sicilia per le loro esperienze culturali, quasi il rituffarsi palingenetico tra la vestigia di mondi scomparsi, tra profumi e sapori da giardino dell’eden sognato, vagheggiato e rivissuto.
Sono ospiti della Sicilia, nel tempo, tra gli altri Gregorovius, Nietzsche, Von Riedesel, Goethe, Munter, Wagner, Schinkel, Gloeden, Brahms.
Entrano e frugano nei dimenticati palazzi, nelle squallide case contadine, nelle impossibili locande e stazioni di posta; percorrono strade e trazzere polverose, annotano, dipingono momenti di solare splendore o fotografano, con ambiguo interesse tipi antropologici e ritenuti archetipi della virilità isolana.
Tutto concorre alto studio e all’approfondimento di scoperte e dettagli, talvolta piccoli tasselli folklorici da inserire in descrizioni o esperienze più complete.
A Palermo il 5 aprile 1787 il sommo Goethe descrive con minuzia e stupore l’uso che da parte di certi bottegai si fa di “eleganti scopette di palme nane, che potrebbero anche servire su per giù da ventaglio” dai paraggi della propria porta a quella del vicino, il quale a sua volta, con furtiva astuzia, la restituisce al mittente!”
Lo stesso Goethe il 9 aprile 1787, lunedì di Pasqua, si reca a Bagheria ospite del Principe di Pallagonia (sic!) che definisce semplicemente un mentecatto e della villa da descrizione esemplare: “Se una villa e situata in queste regioni, più o meno nel centro di tutta la proprietà, per raggiungere la residenza del proprietario bisogna percorrere campagne coltivate, orti ed altri fondi di economia rurale. In questo, i meridionali si dimostrano più avveduti massai dei settentrionali, che sacrificano spesso una grande estensione di suolo coltivabile per piantarvi un parco e ingannare l’occhio con la vista di un’infeconda boscaglia. Questi meridionali costruiscono invece due muri, fra i quali si arriva alla villa, senza vedere quello che c’è a destra e a sinistra. La via fra i muri incomincia di solito con una grande porta di ingresso talvolta anche con un atrio coperto, o fluisce nel cortile del palazzo.
Perché anche l’occhio possa sgravarsi tra le due muraglie, queste sono munite in cima di sporgenze e adorne di volute e di piedistalli sui quali poggiano qua e la dei vasi; le pareti sono intonacate, suddivise in vari campi e ricoperte di colore. II cortile della villa e circondato da casette d’un piano, in cui abitano i domestici e gli operai; la villa stessa, con le sue quattro facciate, domina tutt’all’intorno”.
Poche essenziali righe per descrivere una realtà e un mondo solo ed esclusivamente siciliano e che il genio del tedesco Goethe e riuscito sì bene a rappresentare.
Non ci si può, a questo punto, esimere dal citare due presenze tedesche in Sicilia, che per la loro peculiarità culturale, densamente improntata alla cultura germanica, parrebbero, e sono, apparizioni atipiche nel “fil rouge” che lega Sicilia e Germania. Ci si riferisce a Wagner e Nietzsche.
Wagner giunge a Palermo il 5 novembre 1881, occupa due stanze all”Hotel des Palmes”, con moglie, figli e figliastri. Vi trascorre tre mesi, gira in carrozza per il Cassaro, la via Maqueda, visita il Duomo di Monreale, frequenta la Favorita e l’Orto Botanico, Villa Airoldi, Villa Tasca, Palazzo Gangi, blandito e conteso dalla nobiltà panormita. Qui compone il Parsifal, saga misterica della tradizione nord-europea, che lo ispira ma che ne è il contrario.
Per inciso, val la pena di ricordare che Auguste Renoir il 15 gennaio 1882 piomba a Palermo e in mezzora, divertendo Wagner, ritrae il grande musicista.
Assolutamente diversa è l’esperienza siciliana di Friedrich Nietzsche, che giunge in Sicilia, a Messina, nell’aprile 1882.
Non cerca paesaggi e stimoli mediterranei, né verifiche culturali, quella di Nietzsche è un’esigenza intima di quiete, che spera di trovare, nella luminosità dei lontani orizzonti di Messina, una tregua al turbinio della propria vita, al travaglio dell’inquietezza che lo angoscia. A Messina nascono gli Idyllen Aus Messina, frutto di uno stato di grazia solare e di letizia.
Pittore di paesaggio, grande maestro del romanticismo pittorico, Karl Friedrich Schinkel giunge in Sicilia nel 1805; sensibile alla trasposizione pittorica del rapporto fra città e territorio, con eccezionale sensibilità ci ha lasciato gouaches, tele, acquerelli di rara intensità romantica, fornendo, con il complesso della sua opera, un reportage ante litteram della realtà paesaggistica della Sicilia.
Visitò paesi e villaggi, a dorso di mulo e con tre compagni di viaggio, definendo il viaggio “peregrinazione che rimane, per me fra tutte, quella di maggior valore“, e Palermo “la citta più bella d’Italia“.
Questo succinto excursus tenta di essere testimonianza di un rapporto tra l’Italia, la Sicilia, parte indivisibile dell’Italia secondo Goethe, e gli esponenti più significativi della cultura tedesca, rapporto teso non solo ad un arricchimento e ad un ampliamento di spazi culturali, ma spesso mezzo per un dialogo con sé stessi.
Si desidera concludere ricordando un’esperienza forse poco nota ma paradigmatica del rapporto, anche osmotico, tra Sicilia e Germania.
Ci si riferisce al Parco di Sanssouci, nei pressi di Berlino, a nord ovest di Potsdam, esteso 290 ettari, ricco di palazzi e giardini. Vera epifania mediterranea nel cuore dell’Europa del Nord.
Immediatamente prossimo al castello di Sanssouci vi è il Parco e il Castello di Charlottenhof, realizzati dopo il suo viaggio in Sicilia da Schinkel.
Visitando il parco, purtroppo, vulnerato dagli oltraggi della seconda guerra mondiale, tornano alla mente le parole che Goethe dedica alla Villa Giulia di Palermo “che ha qualcosa di fiabesco . . .ci trasporta nel mondo antico. . .aiuole verdeggianti e fronde esotiche“.
Oggi il Sizilianischer Garten di Potsdam è un pezzo di Sicilia a Berlino, testimonianza che ci conferma come l’amore dei viaggiatori stranieri per la Sicilia sia spesso più forte di quello che i siciliani provano per la loro terra.
Orazio Sbacchi