Corso di scruttura creativa
La validità del Corso di Scrittura Creativa si valuta dalla qualità della produzione letteraria dei suoi partecipanti.
Preferiamo non commentare la qualità delle perfomances dei nostri Corsisti perché riteniamo che essa si commenti da sola.
Sandra V. Guddo
Pippo La Barba
CREDERE NELLA VITA
Cosa sono l’infanzia e l’adolescenza? Tappe qualsiasi del tempo? O qualcosa che ci modella imprimendo un marchio indelebile alla nostra esistenza? Penso sempre alla mia vita di bambino, poi di ragazzo, ai miei genitori, che sono morti a distanza di un mese l’uno dall’altro quando io, il più grande di un altro fratello e di una sorella, avevo appena quindici anni. Rifletto a volte su cosa avrebbe potuto essere la mia vita dopo quella tragedia se non avessi avuto prima un’infanzia felice assieme ai miei genitori, a una zia nubile mancata anche lei prematuramente e ai nonni paterni, tutte figure di riferimento, ciascuno mi ha insegnato qualcosa. Mio padre mi ha insegnato la tolleranza, a non giudicare le persone; mia madre era un’emotiva, ma mi ha trasmesso la caparbietà; la zia, divoratrice di libri, mi ha contagiato l’amore per la lettura, che poi si è trasformato in amore per la scrittura; mia nonna era una donna di grande esperienza (aveva fatto per quindici anni in America la capo reparto in un grande magazzino). Ricordo la sua pazienza: aveva sempre una parola di conforto per tutti. Mi ha insegnato l’attitudine all’ascolto. Infine mio nonno, un burbero benefico, che mi ha inculcato princìpi importanti. Mi diceva sempre: “Tira dritto, non cacciarti mai in situazioni complicate chè te ne viene sempre male. Io nella mia vita non mi sono mai preso dispiaceri per avere fatto un piacere”. Ecco, mi ha insegnato la linearità. Purtroppo nessuno mi ha insegnato la gentilezza, ho sempre avuto un carattere spigoloso.
Eravamo una famiglia unita, la domenica mangiavamo tutti assieme, spesso con altri parenti. Le donne cucinavano con semplicità e senza alcun compiacimento, a pranzo si discuteva liberamente, mai uno screzio. Ripenso le bellissime giornate passate in campagna, nell’azienda di famiglia, dove c’erano le mucche, le galline, ma anche tre pecore con gli agnellini e due porcellini. Lì abitava il mezzadro con la moglie, due persone splendide che trattavamo e ci trattavano come parenti (tuttora con i figli che vivono in Argentina ci sentiamo via facebook o in whatsapp). Mio padre aveva un calesse trainato da un cavallo e mi portava spesso in campagna. Mi colpiva di lui la dimestichezza con gli animali. Aveva vissuto in campagna a contatto con essi sin da ragazzino e aveva imparato ad addomesticare i puledri selvaggi. Quando viaggiavamo sul calesse lo ammiravo mentre con perizia e dolcezza impartiva comandi all’animale. Poi passammo all’automobile, una balilla di seconda mano, siamo nella metà degli anni cinquanta. La cosa che mi è rimasta impressa è che un cane, un bell’esemplare bianco, riconosceva a distanza il calesse o la macchina e ci veniva incontro festante. Questo cane si chiamava Fortunato, era un nome che gli aveva messo Paolo, il figlio del mezzadro, perché uno dei due cuccioli gemelli era morto e quello rimasto lo aveva chiamato così. Le mucche erano la mia passione, mi piaceva strigliarle, poi imparai a mungerle. Le scampagnate in campagna, che spesso coincidevano con i periodi cruciali dei lavori agricoli, principalmente la trebbiatura del grano, coinvolgevano tutta la famiglia, ma si esaurivano in una giornata. Questo perché la casa non disponeva degli spazi mecessari per pernottare. Partivamo la mattina presto e tornavamo all’imbrunire, ricordo che mio padre doveva fare due viaggi all’andata e due al ritorno perchè non ci stavamo tutti nella macchina. Un luogo che non dimenticherò mai è il forno in pietra mezzo diroccato attaccato alla stalla. Quante mangiate di pasta a forno e di cosciotti di agnello con patate!
Una scuola di vita! Dopo più di cinquant’anni ho sempre presenti i miei genitori, a volte li chiamo, cerco il loro aiuto. Non è ricordo, ma memoria viva.
Pippo La Barba
Miriam De Luca
LE GEÔLIER
Lo specchio riflette
la tua immagine compiaciuta
sei bello, elegante, volitivo …
rispettato da tutti
Ma non ti ammiri
Come magma non riesci a ordinare
la tua anima
Non riesci a separare le tenebre dalla luce.
Dilaniato dai rimorsi
vivi nella paura del tuo lato oscuro
Una spiarle di catene
ti soffoca
Solo ” Quella Luce ” ti salverà …
( Miriam de Luca)
Giovanna Sciacchitano
Una storia mancata
Mi hanno chiesto di scrivere un racconto, una storia d’amore!
Ho rifiutato, le storie d’amore sono tutte banali, si è felici da matti o si soffre da matti e quando non si verifica nessuna delle due possibilità, allora si vive una storia d’amore che non è neppure banale: è solo una storia che non è.
A proposito di storie che non sono voglio raccontare una storia d’amore che è rimasta in un cassetto, non che sia stata dimenticata, no, questo no, né da lei, né da lui, ma era una storia scomoda che avrebbe invaso le loro vite così diverse.
Lo sapevano tutti e due che si amavano, era un sentimento antico il loro, ma per fortuna, quando lei trovava il coraggio di esprimere il suo amore per lui, lui si mostrava distratto, distaccato e freddo e quando lui era più accogliente verso l’amore di lei, lei non aveva voglia di esprimere l’amore per lui.
Così per anni, l’amore dell’uno non incontrò mai l’amore dell’altra.
Se sia stato un bene nessuno può dirlo.
A volte si incontravano di notte, nei sogni di lei, allora erano baci, carezze e persino poteva capitare di fare l’amore.
Nel sogno tutto era perfetto, innamorati l’uno dell’altra vivevano una storia d’amore banale, al mattino però la riponevano nel cassetto e davano un bel giro di chiave per essere ben certi che la storia non venisse fuori all’improvviso a creare chissà quali complicazioni alle loro vite.
Un giorno proprio all’alba, uscendo di corsa da un sogno, dimenticarono nella fretta di chiudere a chiave la loro storia d’amore.
Tutto andò liscio fino a quando nel pomeriggio non si incontrarono per caso, in una stradina affollata della loro città.
Faticarono a riconoscersi, per troppo tempo erano stati lontani e non servì stringersi l’uno all’altra, purtroppo continuavano a non riconoscersi.
Tentarono allora di baciarsi, lo avevano fatto tante volte in sogno, ma la situazione non migliorò di molto.
Cominciarono a camminare e a parlare e parlavano, parlavano, ma mai del loro amore, come se i loro corpi fossero estranei a quel sentimento che li coinvolgeva e sconvolgeva allo stesso tempo.
Ripercorsero, assieme alla strada, pezzi della loro vita passata insieme in un tempo che non serviva più.
Anni e anni in poche ore e quando finalmente i loro occhi incontrandosi in uno sguardo trovarono qualcosa che poteva far dire loro sì, siamo noi, siamo quelli del sogno, si accorsero che il tempo a loro disposizione era già finito.
Proprio così, questa storia d’amore non aveva un tempo per essere vissuta.
Probabilmente c’era tutto quello che serve ad una storia, amore, attrazione fisica, curiosità e forse ci sarebbe stata pure tanta passione, ma mancava la cosa più importante, direi essenziale: il tempo per viverla.
Lei e lui allora non trovarono soluzione migliore che correre, appena buio, dentro il
primo sogno che capitò, era un brutto sogno, ma era l’unico mezzo per riporre la loro storia d’amore nel cassetto e chiuderla a chiave.
Beh, volete sapere come è finita ?!
La storia è ancora lì, chiusa nel cassetto e la chiave si è persa.
Giovanna Sciacchitano)
Giovanna Fileccia
IL COFANETTO INTAGLIATO
Una miriade di oggetti parlano al mio cuore ma di uno solo oggi mi concedo di raccontare: è un cofanetto che racchiude per me e la mia famiglia un valore sentimentale. Di legno poroso intagliato finemente, gli è stato affidato il compito di memorizzare e quasi di cristallizzare quell’estate del 2005, tuttora presente nei miei ricordi tanto da rivivere quegli eventi come se fossero passati solo pochi giorni !
L’aereo quella notte atterrò puntuale: partiva da Kiev e conduceva a Punta Raisi un gruppo di infanti accompagnati dagli assistenti sociali. Per ogni bambino c’era una famiglia affidataria che aspettava trepidante il loro arrivo. Varcarono i locali dell’aeroporto tanti piccoli scriccioli biondi: chi sorridente, chi in lacrime, si stringevano agli adulti e stavano vicini tra di loro.
Fu chiamato l’appello e a ogni cognome della coppia affidataria, corrispondeva il nome russo di un bambino o di una bambina. La piacevole procedura si svolgeva secondo programma: i bambini si lasciavano prendere in braccio e accettavano di buon grado i baci che i genitori affidatari ponevano sulle loro candide guance. Si percepiva la felicità che le coppie provavano: erano consapevoli di accogliere nelle loro famiglie quei bimbi bisognosi di cure, di affetto ma soprattutto di caldo sole estivo.
L’aria era colma di gioia finché arrivò il turno di due fratellini, un maschietto e una bambina: i coniugi affidatari fecero un passo avanti ma storsero il naso e, come niente fosse, dissero a voce alta:
–Noi abbiamo deciso di prendere solo la bambina-.
Non era la prima volta che accadeva! Già alcune coppie negli anni passati avevano rifiutato per varie ragioni l’affido dei piccoli bimbi, eppure quella notte gli assistenti sociali insistettero affinché quei due adulti cambiassero idea: si appellarono alla legge, in fin dei conti sapevano dei problemi del piccolo orfano, e quando fu ripetuto un secco rifiuto, si appellarono ai sentimenti di pietà umana e amore. Ma non ci fu nulla da fare perché, dissero, non avevano inteso bene la gravità della situazione e non volevano assumersi una responsabilità del genere:
-Il bambino è menomato-, proruppe la coppia siciliana, e noi non lo vogliamo. Non possiamo rovinarci le vacanze, per cui prendiamo in affido solo la sorellina sana-.
Detto ciò l’uomo prese in braccio la piccola, fece dietrofront e con moglie al seguito, uscì dalla porta scorrevole mentre la bimba piangeva tendendo le manine sottili verso il fratellino, spettatore inerme, vittima di un evento più grande di lui.
Erano le 7 del mattino e mio marito, tornando da lavoro, venne a svegliarmi e col viso aggrottato mi raccontò il troppo dolore che avvertiva nel petto per quella creatura rifiutata. Non riusciva a capacitarsi per quanto aveva assistito:
–Come hanno potuto quei due adulti essere così insensibili!-ripeté più volte.
Poi arrivò al nocciolo del suo pensiero:
–Lo voglio prendere io e portarlo qui a casa nostra. Tu sei d’accordo?
–Sì -risposi.
Lacrime amare trattenemmo a stento al pensiero di quel bimbo separato dalla sorellina: l’unico ad essere lasciato con gli assistenti sociali solo perché nato difettoso.
Mio marito telefonò immediatamente al numero che, dietro sua richiesta, gli assistenti sociali poche ore prima gli avevano dato:
–Sto venendo con mia moglie a prendere il bambino-, annunciò.
E così, di primo mattino, rinviati i nostri impegni e lasciati i nostri figli a casa perché già abbastanza grandi, attraversammo Palermo. Arrivammo vicino al Politeama. Trovata l’abitazione suonammo il campanello e gli assistenti sociali ci accolsero con un abbraccio e ci presentarono Alosha: se l’aveste visto! Un visetto d’angelo impertinente: occhi blu, capelli biondi e braccine di ferro filato. E dalla vita in giù tutto sbilenco: camminava a scatti, portando il piede storto avanti insieme all’anca che, storta anch’essa, accompagnava il movimento. Aveva trovato il modo di stare in piedi quel bambino dal viso corrugato che ci sorrise stringendo tra le braccia il pallone che gli avevamo portato in dono.
Ma ci riferirono che per la legge non avremmo potuto accoglierlo, che per essere idonei come genitori affidatari c’erano test da superare, mesi di prassi da seguire, e carte su carte da firmare, per cui potevano lasciarcelo portare a casa nostra, sì, ma solo per due settimane, e solo se saremmo stati disposti a ospitare anche l’assistente sociale, un’avvocatessa di nome Victoria, che aveva la tutela di Alosha. Acconsentimmo e firmammo moduli su moduli, rispondemmo a domande su domande e finalmente, che già era ora di pranzo, mentre l’afa di quel giorno di luglio aumentava a dismisura, uscimmo da una Palermo infuocata, e in quattro arrivammo a casa. I nostri figli accolsero Alosha prendendolo in braccio: un mucchietto di ossa e pelle di 6 anni che pesava quanto due degli otto cuccioli di rottweiler che da pochi mesi erano nati a casa nostra.
Volarono i giorni: tra passeggiate e giochi in giardino. Alosha era il perno su cui tutti ruotavamo. La sua presenza in casa rivoluzionò le nostre abitudini tanto che io cucinavo spesso ciò che egli preferiva: pasta al burro o al pomodoro, pollo panato o polpettine al sugo, torta al cioccolato e macedonia di frutta. E dopo pranzo aveva il suo passatempo preferito: scopa tra le mani e con foga ramazzava il piazzale attorno la casa.
Poi mare e sole … e in spiaggia con quel costumino rosso che, insieme ad altri indumenti e scarpe, avevamo acquistato per lui, ciondolava e noi dietro. Vivace e felice di sguazzare a riva, nuotava sghembo e poi si arrabattava per la spiaggia e tra un passo e l’altro l’andatura sbilenca si accentuava di più. E lì nelle spiagge di Trappeto o di Cinisi o di Balestrate, in ogni spiaggia insomma che andavamo, suscitava nei bagnanti sorrisi di commozione … ma per magia la sua gioia era la nostra.
Il cofanetto di legno grezzo intagliato racconta tutto questo perché è il dono che Victoria ci fece: ce lo lasciò insieme a una pipa e un indirizzo scritto di suo pugno: un invito ad andare a Kiev, sita a 100 Km da Cernobyl, sede del disastro ambientale causato in seguito al grave incidente verificatosi in una centrale nucleare nell’anno 1986: fu dopo una violenta esplosione che il materiale radioattivo ricadde su vastissime zone, inquinando laghi e fiumi, rendendo l’aria irrespirabile, avvelenando i frutti degli alberi, costringendo intere famiglie a lasciare le loro case, a cambiare le loro esistenze, a convivere con le deformazioni fisiche e le malattie.
Alosha nato nel 1999 riportava dentro il suo gracile corpo le conseguenze radioattive tramandate a lui dall’ambiente in cui vivevano i suoi genitori.
Durante quei quattordici giorni io e Victoria, riuscimmo a comunicare sia a gesti che con il vocabolario in mano (io quello in italiano e lei quello in russo). Ogni cosa che vedevamo, veniva da noi confrontata nella nostra lingua madre, indicata nel vocabolario e ripetuta per essere memorizzata. Si creò una grande armonia tra noi: ricordo con grande piacere i pomeriggi durante i quali, mentre Alosha ramazzava, io e lei, utilizzando ogni altro strumento a nostra disposizione come la mimica, le figure delle riviste e i disegni, ci raccontavamo le nostre vite: Victoria, avvocato, era sposata ed era madre di due maschietti che per fortuna erano nati sani. Mi raccontava la distruzione ambientale di Kiev e dei tanti bambini morti o nati ammalati o deformati.
Alosha era uno di loro, un piccolo ometto nato con una caparbietà fuori misura per un bambino.
Eppure questa storia ha un lieto fine: Alosha che oggi ha 18 anni, pochi anni dopo essere stato a casa nostra, è stato adottato da una famiglia russa. Il padre adottivo, un medico chirurgo, ha mosso mare e monti perché venisse più volte operato: l’anca gli è stata raddrizzata e le articolazioni delle gambe rimesse parzialmente in sesto. Rimarrà sempre magro dalla vita in giù, ma almeno sappiamo per certo che è amato da una famiglia che, non solo lo ha accettato per com’è, ma ha contribuito a rendere la sua vita degna di essere vissuta.
(Giovanna Fileccia )
Alessia Guglia
L’Intrusa
Una quindicina di giorni fa, un violento temporale che si era scatenato in nottata, decisi al mattino, di uscire con l’ auto, avendo già accompagnato i ragazzi a scuola e fatto i “mestieri”, come dicono in Brianza.
Prima tappa era il regno delle casalinghe, ossia il centro commerciale.
Così, scesi da casa e già in lontananza vidi il finestrino sinistro abbassato per metà
.”Oh cavolo, la pioggia di ieri sarà entrata in macchina ! ” pensai immediatamente.
Entrata in auto mi accorsi, con stupore e sospirando, che il sedile era ancora umido, tuttavia, seduta comodamente, indossai la cintura di sicurezza e guardai nello specchietto per fare la retromarcia. In un lampo mi vennero in mente due domande: la prima si riferiva al motivo inspiegabile per cui mio figlio Alessandro lascia quasi sempre il finestrino ; ah dimenticavo! voi non avete il piacere di conoscere i miei due figli, la luce dei miei occhi. Antonio e Alessandro. Non si somigliano per niente né fisicamente, né caratterialmente. Il maggiore è castano chiaro alto e magro, come lo era mio marito alla sua età, sembra il ritratto dell’ Imperatore Costantino, con quei suoi riccioli e la pelle candida. Alessandro è invece preciso e identico alla nonna materna, occhi grandi e penetranti, nasino all’ insù e una faccia di bronzo unica. Antonio è riflessivo e qualunque impegno prenda, lo rispetta portandolo a termine. Alessandro, al contrario promette una cosa e poi dopo due minuti ne fa un’altra, ma parla così tanto riuscendo a confondere le nostri povere menti, facendoci pure credere che alla fine abbia ragione lui.
Questo succede anche per i finestrini dell’auto. Una volta ha persino preso la scusa che la colpa del finestrino aperto fosse da attribuire ad un fantomatico ladro di auto, che poi scocciato dei tentativi di poter entrare dal finestrino, andò via.
La seconda domanda che mi incuriosiva, riguardava invece il fatto che nel portabagagli ci fosse un nuovo peluches, che non ricordavo di aver comprato o che mi fosse stato regalato. Dovete sapere che possediamo uno zoo di peluches. Una collezione completa di Winnie The Pooh, un Panda di nome Piccolo Pu, una giraffa due tigri tre o quattro cani, un gatto, ecc. I ragazzi li hanno ricevuti in regalo, ma ormai essendo grandicelli, alcuni li ho trasferiti in auto.
Allora mi soffermai un pò, riconoscendo nel nuovo pupazzo, la gatta randagia che coccolo sempre.
Da precisare che io non amo particolarmente i gatti, ma provo un amore sviscerato per i cani, sin da bambina. Ma quella gatta è la mia “Miciona”, bellissima e furbetta. Mi fissava immobile, come fosse una statua di gesso, ma anche sicura che non l’avrei mai messa in pericolo. Avrebbe potuto fare un viaggio con me, del tipo Palermo-Catania e non si sarebbe mossa da quella posizione, che la faceva sembrare una Sfinge dagli occhi verdi.
Però, io non dovevo viaggiare, ma avevo il tempo contato per fare solo un giro a “La Torre”, quindi, come un fulmine, aprii gli sportelli e lei col passo felino di una pantera, scese, guardandomi un attimo, come per ringraziarmi di averle fatto passare la notte al calduccio.
Se avessi un giardino il mio sogno sarebbe quello di raccogliere dalla strada cani e gatti randagi e portarli a casa, godendo della loro affettuosa compagnia
( Alessia. Guglia )
Loredana Milazzo
Esercitazione: comporre una frase o periodo con la sola ESSE
Sonia
Stordita, stanca, sdraiata sulla stuoia stiracchiata, Sonia sogna spiagge soleggiate, sorgenti salmastre, stormi saettanti, salmi suadenti, suoni soavi, straordinari silenzi, sopite stranezze, stravaganze, sordi stupori, sorrisi surreali, serrande socchiuse …
( Loredana Milazzo )
Pippo La Barba
STORIELLA VERA
E’ una domenica di primavera del 1980. Al Piccolo Teatro Città di Palermo di via Pasquale Calvi va in scena la trecentesima e passa replica di ” Palermo Oh Cara.” Regista e attore principale Gigi Burruano.
Seduto nella sua bella poltrona di prima fila che ha in abbonamento u zu Cicciu, ubriaco ventiquattrore su ventiquattro, noto a tutti perché vende fichidindia nella piazza del Borgo da tanti anni.
Arrivati a un certo punto dello spettacolo Burruano, come da copione, dice: “Me lo berrei un bicchiere di vino!”.
U zu Cicciu si contorce come morso dalla tarantola, poi si alza di scatto rubicondo e con gli occhi sgranati, si avvicina al palcoscenico e grida: “Signor Burruano, Lombardo è chiuso!”
(Lombardo è la bottega di vini vicino il teatro dove u zu Cicciu normalmente si serviva).
Burruano non riesce a continuare lo spettacolo per le risate e subito ordina: SIPARIO!
Diletta D’Andrea, compagna di Vittorio Gassman, si trovava ad assistere allo spettacolo, e quando gli raccontò la gag involontaria, l’attore rise fino alle lacrime.
( Pippo La Barba)
Salvina di Ganci
La Lanterna
La vita è piena di sorprese: quando siamo bambini essa ci appare meravigliosa, piena di giochi e di scoperte fantastiche dove tutto è bello intorno a te , specialmente se hai dei genitori protettivi ed amorevoli come i miei.
Crescendo però ti accorgi che la vita non è proprio come te l’aspettavi. Ci sono tanti pericoli in agguato, tante difficoltà da superare. Ad aggravare la situazione poi ci sei proprio tu con gli errori che commetti uno dietro l’altro; ed io ne ho commessi tanti, tanti. Ma è proprio dagli errori che si impara, attingendo dal nostro bagaglio esperenziale, possiamo imparare a trovare la giusta via specie se , ad illuminarci la strada, abbiamo con noi la lanterna della saggezza. ma non è facile trovarla !
Io l’ho trovata in un mercato davvero speciale, ma prima di arrivare alla giusta bancarella, ho dovuto attraversare tutto il mercato: ho superato la bancarella spigolosa dell’Incomprensione e poi quella enorme del Dolore. Infine sono arrivata davanti alla bancarella del Perdono e a quella tutta colorata dell’Ironia dove ho imparato a perdonare me stessa e gli altri per gli errori compiuti e la sofferenza che ciò mi aveva provocato ed ho cominciato a sorridere e a prendermi benevolmente in giro, ridendo di me stessa e dei miei difetti. In fondo ma proprio in fondo c’era la bancarella della saggezza: soltanto poche persone intorno e quando finalmente sono arrivata, ho comprato, a buon prezzo, la lanterna della saggezza.
Il venditore, un uomo dagli occhi buoni e luminosi, mi ha però raccomandato che la lanterna va alimentata ogni giorno perché la saggezza è come un lungo cammino durante il quale non è consentito fermarsi.
CETTY UCCIARDI
DONARE
La mano non dice
la penna non ha parole ma dà voce
sul foglio bianco traduce le parole
che la mente detta
partorite dal cuore
Scorrono … come treni sui binari
Sentimenti
gioe
dolori
aprono un varco nella mente
sia docente che discente
anche ai non sapienti.
Non le conti le parole
non le cerchi nel dizionario, li poni su bianco foglio
testimoni di una vita
permanenza infinita
Non si contano versetti né terzine,
non si seguono le rime
Il poetare non è uno stile
né un vestito da indossare
E’ un sentimento puro
e come tale mette a nudo
il proprio modo di donare.
Cetty Ucciardi
Salvina Di Ganci
Breve esempio di Pensiero Creativo Divergente
Un uomo si reca da un indovino per conoscere il suo futuro.
Bussa alla porta ” Toc , Toc “
< Chi è > risponde la voce dell’indovino dall’interno.
” Cominciamo bene … “
(Salvina Di Ganci)
Almerinda Margiotta
Riflessioni
Sono orgogliosa di far parte di questa squadra.
Non avrei mai pensato di poter godere di tanta piacevole compagnia semplice, spontanea e amichevole. Mi sembra di essere in una grande famiglia che si riunisce con la voglia di stare bene e di passare, arricchendosi, momenti importanti della propria vita. attraverso la trattazione di argomenti e problematiche, tecniche ed esercitazioni di Scrittura Creativa che ci coinvolgono e ci appassionano incondizionatamente.
Grazie Sandra , di aver ritagliato un po’ del tuo tempo per noi.