Francesca Luzzio

Chilometro 9

di Giusi Russo

Recensione a cura di Francesca Luzzio

Chilometro 9 è un romanzo complesso, difficile da ascrivere a uno specifico sottogenere letterario:è storico perché c’immerge in momento storico ben determinato: dagli anni venti, primo dopoguerra, agli inizi degli anni sessanta; è sociale perché descrive in modo realistico le condizioni di vita dell’epoca, la miseria, in particolare, che dopo la prima e la seconda guerra mondiale, allignava nella maggior parte delle famiglie; è psicologico perché ci fa entrare nel cuore e nella mente dei protagonisti.

Quest’ultima identificazione di genere è forse la più pregnante perché la narratrice propone al lettore una costante immersione nel modo di essere, di sentire dei personaggi, sia che l’azione determini il sentire e le conseguenti riflessioni o il sentire l’agire.

Un monologo, o forse meglio un soliloquio di una figlia accanto al letto di sua madre, colpita da ictus, un soliloquio che si intreccia a moltissime pagine di narrazione in cui la storia di mamma Salvina e della sua famiglia, di quella dei suoi genitori e delle persone che ruotano intorno a loro vengono narrate ora in posizione  omodiegetica, principalmente nel soliloquio con la madre, che è distinto anche graficamente attraverso il corsivo, ora in posizione eterodiegetica , soprattutto quando la figlia-narratrice espone  la storia della famiglia  di sua madre o  quella dei suoi nonni, insomma quegli eventi  che le sono  stati raccontati e non personalmente vissuti, oppure letti nel diario della mamma.                                                                          

Gli spazi in cui si svolgono i fatti, se prescindiamo dalla stanza di ospedale, sono vari: la casa della famiglia dei D’Amelio, a cui Salvina viene affidata dopo la morte del padre, il collegio delle suore, dove  incontra l’amicizia di Rita, ma anche il primo amore, il primo invaghirsi, di lui , di quel postino che sbirciava dalle persiane al suo puntuale arrivo e poi i vari caselli ferroviari dove lavora  Giacomo, il marito proposto-imposto successivamente a Salvina, sino a quell’ultimo casello ”Chilometro 9” di Ficarazzi.                                                        

“Chilometro 9” è anche il titolo del romanzo, a sottolineare l’importanza- chiave di quest’ultimo casello, poiché qui viene concepita la figlia-narratrice, quando Salvina ha già 47 anni e, ormai anziana per partorire ancora, dopo la nascita di tanti figli, alcuni dei quali morti ancora bambini, vorrebbe abortire, ma poi la sua coscienza glielo impedisce e così lei può, come si legge nell’ultima pagina- soliloquio del romanzo ”ancora essere il suo sé più coraggioso, il più caparbio, il più attaccato alla vita”                                              

Se la dimensione spaziale è eterogenea, altrettanto può dirsi di quella temporale, giocata attraverso un continuo mescolarsi di piani, cosicché il tempo della narrazione s’intreccia di continuo con il tempo dei fatti, in modo da permettere di fondere insieme il piano della narrazione con quello della riflessione sugli eventi narrati; così avvenimenti e pensieri si confondono sino a sovrapporsi nell’interiorità della narratrice , in una perfetta corrispondenza  non solo tra passato e presente, ma anche tra esperienze reali ed esperienze interiori, tra esterno ed interno della coscienza.

“Chilometro 9” mi ricorda tanto “  Marcel Proust e la sua opera “Alla ricerca del tempo perduto”, infatti anche qui il passato progressivamente emerge , ma a farlo apparire non è un banale biscottino, una madeleine, ma la madre in carne ed ossa, anche se ridotta ad un essere pressoché vegetale, insomma lei è l’occasione che permette la proiezione letteraria della condizione psicologica e delle conseguenti riflessioni di cui nessun nucleo narrativo può considerarsi privo e che, in un flusso continuo, mescolano passato e presente in una realtà di coscienza irriducibile all’istante vissuto e, pertanto, definibile  bergsoniana durata.                                                                                                     

In questa prospettiva il tempo non distrugge, ma è anzi la forma in cui noi diventiamo padroni e consci e cogliamo il senso più profondo della realtà.                                                  

 Sono le considerazioni di Salvina, le pagine del suo diario scritte con mano incerta, le riflessioni della figlia che legge in sé e nel cuore e nella mente di sua madre, a fare emergere la durezza della vita nel suo proporsi sempre uguale e diversa del trascorrere dei giorni che solo attraverso la forza dell’amore, possono trovare riscatto e indurre a trovare l’energia  per continuare ad essere e ad esserci, come Heidegger propone; anche di fronte alla morte che, incauta e crudele, spesso s’insinua a turbare la normalità o la tentazione di darla, come quando Salvina vorrebbe abortire, la forza incontrastata dell’ amore vince: “cosa ha l’amore del resto se non il suo essere totale, stupidamente totale?” pensa infatti la figlia nell’esternare  già dalla prima pagina del romanzo, alla madre inerme sul letto, la totalità della sua dedizione del suo amore; “ora però non prima “, si legge poi nell’ultima pagina del libro, ”ora che attraversandoti,  ho attraversato me e latitudini spaesate più vere del mio stesso sangue. Non io ho raccolto te madre. Tu hai raccolto me”, ora che l’ha conosciuta attraverso il suo diario, ora che l’ha attraversata, con la narrazione del suo essere e della sua essenza.                                                                                                   

Si comprende bene da quanto detto che lo schema logico della narrazione riguarda la narrazione degli eventi vissuti, mentre la condizione iniziale e finale dello stato emotivo- sentimentale nel rapporto madre-figlia è identico alla fine e all’inizio del romanzo, sicché, a livello  narratologico, si può parlare di circolarità strutturale, ma  a livello esistenziale è stato necessario, “quell’attraversamento” di cui prima si è detto prima,  grazie al quale madre e figlia hanno trovato una nuova consistenza, hanno realizzato ”un patto d’amore, una trasfusione insperata” (pag.14 )

Il tema del rapporto madre-figlia è ampiamente presente nella letteratura e variamente proposto e, volendoci fermare alla contemporaneità, basta ricordare i nomi di Dacia Maraini, Lella Romano, Francesca Sanvitale e, sicuramente Giusi Russo si annovera tra tali scrittrici che hanno saputo cogliere in alcuni loro romanzi l’eterogeneità del proporsi e realizzarsi del suddetto rapporto.                                                   

Lo stile dell’opera è scorrevole, chiaro, talvolta impreziosito da qualche elemento dialettale, ma  soprattutto da un lirismo intenso, sicché si può  anche parlare di prosa lirica.

Fondazione Mario Luzi Editore