MITO ED EROS ANTENORE E TESEO CON ALTRE POESIE
di Rossella Cerniglia
a cura di Guglielmo Peralta
Tra le varie accezioni che Mito ed Eros hanno assunto nell’evoluzione del pensiero immaginativo, mitopoietico e filosofico a partire dalla cultura antica, quella classica della grecità, fino alla cultura contemporanea, e negli ambiti diversificati della poesia, della filosofia, della psicologia, dell’arte e, oggi, perfino delle neuroscienze che considerano le credenze religiose e mitiche una conseguenza naturale dell’evoluzione della mente umana, i significati relativi a Mito ed Eros, che tra tutti prevalgono in questo testo di Rossella Cerniglia, sono quelli più antichi che ci sono stati consegnati dalla lingua greca e che definiscono l’uno, il Mito, (mythos) “parola”, “annunzio”, ma anche “la cosa stessa”, la “realtà” (come ci ricorda anche Emanuele Severino[1]); l’altro, Eros, “amore”, nel senso di ciò che fa tendere verso qualcosa, di un principio divino che ci fa anelare, aspirare ardentemente alla bellezza.
In Antenore, il poemetto che apre questa raccolta di versi, Mito ed Eros mantengono questo etimo originario nell’orizzonte di una visione poetico-filosofica, la quale fa rivivere «l’ideale perenne, nostalgico, di un passato che ci appartenne e che ritorna sempre nuovo»[2]. Questo “ideale” è il tempo della giovinezza e della bellezza, cui si correla il sentimento della Sehnsucht, tanto avvertito e celebrato dai romantici tedeschi: la “malattia del doloroso bramare”, lo struggimento e il desiderio del “ritorno” al luogo dell’origine, a «una terra lontana, immaginaria ed eternamente cara alla memoria»[3]. Il passato, la nostra età “felice” ci appare così sbiadiata, velata, che dubitiamo di averla veramente vissuta, e definiamo quest’età “mitica”, leggendaria, al pari del mito, il quale è una rappresentazione fantastica con cui si cerca di spiegare perfino la nascita del mondo e degli dei mediante la costruzione di cosmogonie e teogonie. La memoria ci restituisce solo ombre, «i fantasmi che un tempo bruciarono l’anima, le sirene che incantarono i nostri sensi, i miti cui si ancorava il nostro destino per non sfaldarsi e non precipitare»[4]. Siamo figure, personaggi proiettati come su uno schermo e osserviamo scorrere, meravigliati e increduli, lacerti di vita vissuta. Ed è la commozione, è, soprattutto, la nostalgia a restituire alle ombre la nostra identità, a “ricordarci” che quella visione è un’esperienza vissuta, della quale desideriamo di riappropriarci con la coscienza dolorosa di non potere soddisfare un tale desiderio. Antenore è il racconto di questo “dolore”, da intendere nell’accezione indicata da Heidegger, e cioè come il significato originario del termine Sucht. Così, per Heidegger, “La nostalgia (Sehnsucht) è il dolore della vicinanza del lontano”[5], nel senso che essa fa del passato remoto un tempo duraturo, inverando quel punto centrale del pensiero bergsoniano relativo al tempo inesteso, non divisibile e non misurabile, registrato dalla singola coscienza come durata. La nostalgia, come la memoria involontaria in Proust, ha il potere di metterci in contatto col “tempo perduto”, la cui «eco dura nell’anima»[6]. Eros, allora, si “unisce” con Nostalgia, la quale è l’altra sua faccia. Perché il “dolore” è anche l’amore, il desiderio del passato di cui abbiamo goduto e che in interiore si fa eterno presente.
C’è, a mio avviso, un parallelismo tra questo Antenore cernigliano e l’Antenore omerico. Entrambi lega l’Eros: l’amore, che, per l’uno, è tensione infinita verso la giovinezza e la bellezza; per l’altro, desiderio di riconquistare la patria “perduta” a causa dell’accusa di tradimento: per avere consegnato a Ulisse e Diomede il Palladio, talismano dell’invincibilità dei Troiani. Tradimento e accusa difficili da sostenere, se si considera che l’amore per la sua terra mosse Antenore a implorare i suoi concittadini, affinché restituissero Elena a Menelao per scongiurare la guerra con gli Achei.
Il poemetto della Cerniglia è un distillato di contemplazione, com-passione e malinconia: una “miscela” di sentimenti filtrati e compenetrati dall’amore, il quale ne fa una sostanza unica, d’incontaminata purezza, anche quando ad esso si accompagna la voluttà: il piacere, il godimento fisico oltre a quello spirituale. Qui, l’Eros è la passione di Antenore per Palemone e altri giovani amanti; un amore che la memoria e la nostalgia rinnovano e vivificano; che il canto celebra, innalza, trasforma e rende sublime e universale, perché assimilato, intimamente legato e connaturato alla giovinezza e alla bellezza, elevate, quasi, a sinonimi dell’amore, nelle quali si dissolve ogni differenza tra i sessi. La delicatezza dei versi ricorda la poesia saffica e i lirici latini che ad essa s’ispirarono. Ma il pathos, la meditazione spirituale e filosofica, l’esaltazione dei sensi, l’appagamento e la stanchezza, l’appressamento della morte, la divinizzazione del giovane Palemone sono elementi che richiamano il romanzo epistolare “Memorie di Adriano” della Yourcenar, il cui fulcro è la passione dell’imperatore Adriano per il giovanissimo amante Antinoo.
Antenore, ormai vecchio, ricorda «la vita gioiosa», cosciente del lento declinare dei desideri e del dolore del «rimembrare» associato alla «nostalgia del bello sempre più lontano». Egli lamenta l’oblio, al quale sarà destinato per l’assenza di qualcuno che lo «conobbe» e che non potrà essere testimone della sua «felice e breve (…) dolce stagione». Egli ignora, ovviamente, il canto che la nostra Rossella Cerniglia ha qui riservato a lui e alla sua «fulgida bellezza».
Al “mito” dell’età felice, che è il tema centrale del poemetto “Antenore”, segue il mito di Teseo: il racconto della sua nascita, del viaggio verso Atene e delle sue imprese. È una sorta di biografia in versi e in sette quadri, dove, accanto alla figura centrale dell’eroe ateniese, troviamo Egeo, Etra, Medea, il Minotauro, Arianna e altri personaggi minori. Di solito, al nome di Teseo associamo subito il labirinto e il Minotauro; Arianna, il suo filo e il suo abbandono nell’isola di Naxos; la nave e la mancata sostituzione delle vele nere con le bianche; la disperazione di Egeo e il suo suicidio, ignorando i natali dell’eroe e gli altri episodi della sua vita. La Cerniglia recupera, sapientemente, quella parte del mito, che, solitamente, non rientra nella narrazione o vi resta ai margini. Sono quei fatti e personaggi che precedono la nascita di Teseo, ai quali la poetessa dà particolare rilievo e che rende con versi rapidi ed efficaci. Apprendiamo così della dubbia paternità del nostro eroe, concepito da Egeo, o dal dio Poseidone, con la giovane Etra, una notte, a Trezene, «in un’orgia di cibo e ubriacatura». E ancora, del «deposito paterno: sandali e spada», nascosti da Egeo sotto una roccia, prima che Etra partorisse Teseo, il quale, una volta cresciuto e su indicazione della madre, li recupera per consegnarli al sovrano di Atene, del quale, nel frattempo, ha appreso dalla madre di essere il figlio. Ai sandali e alla spada è affidata, invece, la funzione di svelare a Egeo l’identità di Teseo, suo «remoto e caro dissepolto figliuolo». E l’agnizione è qui espressa mediante la prolessi, in cui l’evento è anticipato. Segue la figura di Medea, divenuta sposa di Egeo dopo che era fuggita da Corinto. E anche qui, il ritratto della «perfida» donna è reso con grande espressività, scolpito con parole di stringata efficacia che producono un effetto iconografico ed “esplosivo”. Un verso, in particolare, ci addentra «nei tenebrosi recessi dell’anima» di questa Medea, dove sono concentrati e racchiusi il suo carattere e la sua psicologia, che da questo verso balzano agli occhi di chi legge. Tutta la narrazione procede per immagini, obbedendo, restando fedele all’etimo del mito, al suo antico significato – di cui si è già detto – che lo definisce “parola”, “annunzio”, “realtà”, “la cosa stessa”. E qui, il mito è parola scolpita che, «con tutte le implicazioni simboliche che esso contiene», lascia intravedere una verità. Per Max Müller, il mito è una «malattia del linguaggio», il quale, incapace di afferrare una verità, la condensa e l’adombra in una favola, in una storia. Il mito, allora, è custode della verità, ed è il luogo più adatto e più rispondente alla sua natura misteriosa, eterea, “favolosa”, se-ducente. Ciò che esso “esprime”, ciò che racconta di questa verità è, al tempo stesso, il suo nascondimento e svelamento. Ma, in quanto “racconto”, il mito è il linguaggio stesso e, dunque, è nella parola che abita la verità. E la parola, alias mythos, è “annunzio” di questa verità, la quale, secondo la lezione di Heidegger, che le attribuisce l’antico significato del termine greco alétheia, è il “non-essere nascosto dell’ente”, nel senso che questo ente, cioè la “cosa”, una realtà data si “manifesta” provenendo da un fondo di oscurità. La verità, dunque, lascia apparire “qualcosa” di sé ritraendosi e nascondendosi nell’oscurità, senza la quale nulla potrebbe venire alla luce. Allo stesso modo dell’alétheia sembra comportarsi la memoria. Essa non è, forse, ricordo e oblio? Non lascia forse apparire, dal suo fondo oscuro, quei lacerti del tempo perduto, che presto svaniscono risucchiati dall’oscurità, dove molti altri ricordi restano sepolti? Questa memoria mantiene un legame col mito e con l’eros, in quanto è tensione e brama verso l’età “favolosa”, verso ciò che essa stessa trae dall’oblio; ed è eros, nel senso della cultura greca: “ciò che fa muovere verso qualcosa; che fa ardere per la giovinezza e la bellezza”. Questo amore, dunque, è rammemorazione, e anima Antenore, come abbiamo precedentemente osservato. E Antenore è tutti gli uomini che amano ricordare; che, come lui, cercano dentro sé stessi la bellezza perduta, il loro essere proprio: tempo e durata, eros e mito, verità, oblio, memoria. In questo libro della Cerniglia, Antenore non ha un legame col personaggio dell’Iliade ed è, come abbiamo visto, solo una figura a lui “parallela”. Inoltre, egli rappresenta soprattutto l’eros; è l’amore e la Sehnsucht. Teseo, invece, è il Mito ed è figura fedele al suo personaggio. La fedeltà, qui, è solo relativa alla narrazione che ci è stata tramandata perché l’eroe è plasmato e trasfigurato dalla poesia, dalla bellezza e dalla “verità” dei versi che ne fanno un personaggio umano, “reale”, animato da sentimenti nobili e anche opposti. Egli prova «angoscia», «rabbia», pietà verso gli «sventurati fanciulli» offerti in sacrificio al Minotauro; è generoso e coraggioso e, al tempo stesso, la paura e l’ansia lo attanagliano, si tagliano con il realismo di questi versi come un coltello:
Ancora il Minotauro non si mostra / geme feroce nei meandri oscuri / ma il respiro di Teseo / è più affannoso / ora che il mugghiare s’avvicina / e più possente risuona / nelle trombe della notte. / Freme l’eroe / nell’ansia mortale che lo stringe / l’orecchio è teso / nello spasimo dell’ascolto / e ogni muscolo gronda di sudore / irrigidito nella ferrea attesa.
Sono versi di grande caratterizzazione psicologica, che scolpiscono lo stato d’animo di Teseo in un momento particolare. E ci commuovono, con la stessa intensità di Omero quando descrive Ettore, che si accinge ad affrontare Achille nel duello mortale.
Il racconto si conclude con “Arianna abbandonata”. Nulla sappiamo di questo abbandono, del tradimento di Teseo, il cui comportamento appare inspiegabile. Il mito è “reticente”, manca di una parte ed è probabile che essa sia andata perduta. La Cerniglia riprende la tragica versione, secondo la quale Arianna si sarebbe suicidata gettandosi in mare. Il suicidio per annegamento è anticipato dalle “immagini” di un mare minaccioso ed è reso dalla nostra poetessa con una tale stringatezza, che va oltre la semplice “sottrazione” di parole. Esso è taciuto ed è solo lasciato intendere nella domanda che Arianna pone a sé stessa: «Perché sono?»: due parole fulminanti, che contengono la risposta al suo tragico gesto: l’inutilità del vivere, il venir meno del senso dell’esistere senza più Teseo, nel quale ella aveva riposto tutta la sua fiducia e il suo amore, la ragione della sua vita. Nei quattro versi che seguono contempliamo il tragico “quadro” del suicidio, dove la figura di Arianna, che sotto un «cielo scuro» entra nel mare, s’indovina in quella «veste sottile» lambita dalla «spuma» e che il vento gonfia, prima dell’ultima onda.
Al cielo scuro / il mare alza la spuma / gonfia il vento, signore delle onde / la tua veste sottile.
In Altre Poesie, titolo di un’altra sezione della raccolta, ritroviamo alcuni dei temi già trattati in Antenore: il “mito”, innanzitutto, ovvero, l’età della giovinezza e della bellezza, cui si legano il sentimento del tempo come loro perdita irreparabile e il pensiero della morte. Se in Antenore, ormai vecchio, persiste l’incanto dell’età “felice”, che lo muove a desiderare di ritornarvi con la memoria nonostante la nostalgia; in questa sezione, dove chi parla è l’Io della nostra poetessa, c’è il «disinganno» e il volontario esilio nel presente, dove ogni attesa è cessata e il “favoloso” passato, percepito come il tempo «dell’ancòra e del sempre», cioè della durata, è «seppellito» nella coscienza «del mai», del suo impossibile «ritorno». Con «il declino dell’ora», con il sopravvenire dell’età matura, ciò che resta di quei «giorni febbrili», vissuti nel desiderio della corrispondenza di anime e nell’attesa di una rivelazione, mai avvenute, è la coscienza del «Nulla» e la conseguente rinuncia a ricordare da parte della nostra poetessa, la quale, accanto alla perdita delle giovanili illusioni, di ogni seducente «richiamo» delle «sirene», avverte la «caduta» della «parola», ovvero, l’impossibilità, l’inutilità di “raccontare” ciò che ella ha consegnato per sempre all’oblio e di cui è custode solo un silenzio tombale. Il «Nulla», allora, è la fine del mythos, dell’ “annunzio”; è la “parola” deserta, disabitata; è il vuoto che resta dopo che «tutto è detto», dopo che «tutto è avvenuto» e nel quale prende posto il pensiero dominante della morte, il «lungo tramonto» su «una terra desolata», alla quale la Cerniglia assimila la propria anima e l’anima del mondo, private entrambe di «albe», di «doni o grazie», di tutto ciò che è necessario alla vita. C’è autobiografismo in questi versi che, in quanto toccano temi universali e denunciano la crisi a livello mondiale, sono anche una “biografia” dell’uomo contemporaneo, sempre più sperduto e abbandonato da Dio, il cui silenzio, qui, non è un’accusa fatta a Lui dall’uomo, ma una conferma da parte del Signore, il quale non è più “Il buon Pastore” che va alla ricerca della pecora smarrita. In questo capovolgimento della parabola, Egli accusa sé stesso, si addossa la colpa di avere lasciato l’uomo al suo destino, di non essersi preso cura di lui permettendo così la graduale dispersione di tutto il “gregge”. Quest’assenza di Dio è il vuoto incolmabile dentro cui la Cerniglia sente sprofondare l’anima, il proprio mondo, la realtà. In questa eclissi del sacro, la parola tace, l’essere perde il legame invisibile con l’assoluto e tutto si fa Distanza illimitata: «regno remoto» dei “luoghi” senza confini, senz’altra meta che il Nulla. Ogni nobile ideale, la speranza, svaniscono «nel tardo meriggio della mente»; la bellezza e l’Amore si perdono dentro quella lontananza, consegnati per sempre al silenzio, al sogno ineffabile. Di fronte a tanta desolazione, non è più di “conforto” alla nostra poetessa il forzato esilio nel presente. La rinuncia a ricordare il tempo dorato, sia pure non privo di amarezze, va oltre la memoria; si fa oblio primordiale, desiderio di ritornare nel «ventre più ancestrale», di dormire il sonno imperturbabile dell’assenza.
Questo “annullamento” di sé fuori dello spazio e del tempo, dura solo il tempo di una poesia[7], cui segue l’annuncio «Del rinnovato dolore»: un altro titolo, questo, della medesima sezione, il quale accoglie testi pregni di tristezza, di uno scoramento più grande di quelli «Del disinganno», che abbiamo già percorso. Una breve pausa, una cesura è quest’annuncio che segna il passaggio dalla quiete desiderata, dal « dono d’un’inerzia sublimata» alla nuova “caduta” nel tempo e nella tempesta della vita. All’oblio di sé, dunque, segue il “risveglio”. La Cerniglia torna ad interrogarsi sull’esistenza propria e del mondo; va alla ricerca della propria “identità” e del senso della vita. Con toni danteschi ella esprime il proprio smarrimento nella «notte fonda, tenebrosa». Molti sono gli elementi che ricordano l’Inferno del divino Poeta e che tracciano il cammino della nostra poetessa sulla via del dolore, in un’atmosfera d’oltretomba, in un mondo gelido e privo di luce, sprofondato nel buio mortale dei «sotterranei dell’anima», dove giacciono sepolti i pensieri, i sogni, le illusioni, le speranze, i sentimenti, l’amore soprattutto, sotto la coltre del dolore che, qui, è l’unico segno di vita. Il mondo intero è una città di Dite, dove ella vaga come un’anima desolata, nella più nera solitudine, senza una guida, senza un “Virgilio” che possa accompagnarla e indicarle una via di salvezza, un varco attraverso cui risalire dall’«oscuro fondo» a “riveder le stelle”. Il sentimento della morte è ormai il gorgo che tutto risucchia, ed è il sepolcro, al quale solo il dolore si sottrae scavando nell’anima il suo «nero pozzo», avvolgendola con la sua «ombra letale». Ed è, questo, un «Dolore fatale», perché gli è compagno il «Vuoto», l’«Assenza radicale» di Dio.
In Ultimi Versi, la sezione che chiude la silloge, il tema del dolore, legato al pensiero della morte, è affrontato con un certo distacco. La Cerniglia, deviando dal dato autobiografico, distoglie, di tanto in tanto, lo sguardo dal proprio mondo interiore, cessa di ripiegarsi insistentemente su sé stessa e si volge all’esterno, pietosa, soffermandosi anche sulla tragedia dei migranti. Accanto al disagio, all’angoscia esistenziale, è stata costante la presenza della sua filosofia della vita, fondata sull’esperienza personale e influenzata dal romanticismo tedesco, dalla concezione dell’esistenza come Sehnsucht, cioè come tensione continua, come quel desiderio mai appagato d’infinito che abbiamo riscontrato, soprattutto, in Antenore, e già presente in un’altra silloge che porta quel titolo tedesco. Ma in questi Ultimi Versi l’esaltazione dello spirito, l’aspirazione all’armonia del Tutto, lo “slancio vitale”, che è l’altro nome dell’eros, vacilla e finisce per cedere al senso d’impotenza e alla coscienza della vacuità e del dissolvimento di tutto ciò che un tempo diede valore e senso alla vita. Tutto rimane sommerso nel «Lete», nel grande fiume dell’oblio e solo resta la tristezza a “testimoniare” questa perdita. Anche le parole, «retaggi d’ombra», sono intrise di dolore e di morte; sparse per il mondo, «come branco famelico», lo avvolgono nel loro vuoto, incapaci di dargli un senso, di afferrarne la bellezza. È la fine del Mito e dell’Eros, mutato in pathos. E a nulla valgono gli spiragli, gli sprazzi di luce, il tendere verso un «orizzonte», che promette un’improbabile quiete. Perché quella «terra lontana», mitica, tanto sognata e desiderata e «cara alla memoria» è diventata Abendland: occidente, terra del tramonto, dove, come gli Dei hölderliniani, tutti i sogni sono fuggiti. E solo la parola, tornando ad essere mythos, può accendere la speranza del loro ritorno.
Guglielmo Peralta
- Severino, La filosofia antica, Rizzoli, pag.17
[2]dalla Nota dell’autrice, pag. 8
[3]ivi
[4]ivi, pag. 7
[5]M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia pag. 71
[6]dalla Nota dell’autrice, cit. pag. 7
[7]Tenera pioggia, pag. 46