Il castello di Maredolce – Orazio Sbacchi
Il Castello di Maredolce== a cura di Orazio Sbacchi
II castello di Maredolce tra incanto e realtà
A cura di
Orazio Sbacchi
Favara dal duplice lago,
ogni desiderio in te assommi vista soave e spettacolo mirabile.
Le tue acque si spartiscono in nove rivi, oh bellissime diramate correnti.
Dove i tuoi due laghi si incontrano, ivi l’amore si accampa,
e sul canale la passione pianta le tende,
o splendido lago delle palme, e ostello sovrano circondato dal lago!
L’acqua limpida delle tue sorgenti sembra liquide perle e la distesa intorno un mare.
I rami dei giardini sembran protendersi a guardare i pesci delle acque, e sorridere.
Il grosso pesce nuota nelle limpide onde del parco,
gli uccelli cinguettano nei suoi verzieri.
Gli aranci superbi dell’isoletta sembran fuoco ardente su rami di smeraldo.
Il limone pare avere il pallore d’un amante,
che ha passato la notte dolendosi per l’angoscia della lontananza.
E le due palme paion due amanti che per paura dei nemici si siano eletto un forte castello.
Palme dei due mari di Palermo, possiate essere abbeverate da continuo flusso di pioggia!
Possiate godere sorte felice e attingere ogni desiderio,
e dormano le avverse vicende.
Prosperate, e fiere riparo agli amanti, alle sicure ombre vostre vige inviolato l’amore.
Così, oltre mille anni or sono, il poeta trapanese Abd al-Rahman descriveva e cantava il verziere contiguo al palazzo ruggeriano della Favara. Versi pregni di amorevole incantamento, di panteistica partecipazione, evocanti le sensuali rime del Cantico dei cantici.
Giardino, non come nei secoli successivi asservito e integrante magioni, castelli o ville, bensì protagonista di un complesso architetturale dove il manufatto e le zone contermini si integrano sublimandosi in un’armonica completezza paradisiaca. Giardino trionfo policromo di esuberante vegetazione, sintesi di colori, profumi, suoni.
Quasi mille anni or sono.
Il castello della Favara e il contiguo lago di Maredolce costituiscono il complesso di Maredolce, un unicum difficilmente rinvenibile nella sua articolata complessità: un castello, un giardino, un lago, un’ isola. Nonostante lo si definisca ruggeriano, il palazzo della Favara (dall’arabo Fawwarah: polla d’acqua) è sicuramente arabo d’epoca Kalbita, e a Ruggero sono intestabili, dal 1130 al 1150, le trasformazioni per renderlo idoneo a essere regale residenza.
Anche se G. Di Maruo è dell’avviso che sia la Zisa che la Cuba che la Favara, attesa la loro uniforme architettura, siano riconducibili al periodo normanno e non antecedenti.
Il vasto lago era alimentato dalle vicine sorgenti scaturenti da monte Grifone, oggi impoverite e asservite ad usi cittadini.
Il complesso, caratterizzato all’esterno da un’austera monumentalità, è coperto nella parte basamentale da molteplici strati di intonaco idraulico, indubbia testimonianza della contiguità delle acque lacustri al manufatto abitativo.
Quattro grandi porte consentivano l’ingresso al maniero, al cui interno si alternano sale, una cappella, piccoli ambienti e la sala dell’imbarcadero con diretto accesso alla Peschiera. Dagli antichi regali splendori del periodo normanno-svevo, il complesso ha subito un lento, progressivo, inarrestabile degrado fino ai più recenti irreversibili oltraggi.
Durante il periodo aragonese fu ceduto, in cambio di parte dei giardini della Magione, all’Ordine dei Cavalieri Teutonici, che immemori dei primevi fasti, lo adibirono a lazzaretto
Passò quindi ai Bologni nel XVI secolo a Francesco Agraz duca di Castelluccio, che trasformò il complesso in azienda agricola; il degrado e I’ incuria degli usuari proseguì inarrestabile sino al 1940, quando per l’illuminato intervento del sovrintendente ai Beni Culturali dell’epoca, il padovano Guiotto, si pose mano ai primi interventi di consolidamento e restauro.
Ma l’ultimo incancellabile oltraggio il complesso lo subì negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, allorché dismesse le sorgenti, inariditi i giardini, trasformatasi in maleodorante palude la Peschiera e occupato il castello dagli abusivi abitatori, I’ antico sollazzo ruggeriano è diventato testimonianza ulteriore di quel complesso di minorità colpevole di cui la città di Palermo non riesce ad affrancarsi.
Oggi anonime costruzioni avviliscono e circondano quella che fu, mille anni or sono, una metafora terrena del paradiso islamico, un semantema della potenza ruggeriana, una sintesi unica e perfetta di umane realizzazioni destinate a testimoniare nel tempo cultura e tradizioni, unità di popoli avvicendatisi nei secoli nella nostra terra.
Un ripristino del complesso secondo gli stilemi originari; ha valore meramente onirico essendo ineliminabili i più recenti oltraggi, ma si potrebbe tentare di riscrivere il libro della natura, se è vero, com’è vero, che un giardino può essere l’immanentizzazione di un testo poetico.
Non più tardi di un cinquantennio B. Pasternak cantò:
“L’odore dei tigli costituisce,
negli istanti in cui prende la gente per il cuore,
l’oggetto e il contenuto d’un volume,
aiuole fanno da rilegatura”
Versi, questi, che sono la sanzione ultima del legame, che nei millenni della storia dell’umanità, legano parte dei giardini con le arti della parola, e in particolare con la poesia.
Siccome Dante, nel Paradiso, canto XXX,w. 6l-69:
“E vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori”.
Orazio Sbacchi