(NdR)
I termini “russo” e “ucraino”, in questo periodo si equivalgono, perché l’Ucraina non era una repubblica autonoma, ma era parte del territorio russo, anche se era presente una certa rivalità tra russi e ucraini.
I nomi delle località e alcuni termini ucraini riportati nel testo, possono non essere precisi e storpiati.
Mio padre scrisse queste memorie all’età di 88 anni, cioè circa 65 anni dopo gli eventi.
Inoltre dopo il 1950 i nomi di molte città sono cambiati:
Belcy = Balti
Voroscilovgrad = Lugansk
Stalino = Doneck
Dnipropetrovs’k = Dnipro
Debalzeu = Debal’ceve
Rikowo = Jenakijeve.
… … …
Libro pubblicato nel 2008, a cura di Giuseppe Piraino, per conto del Comune di Vallelunga Pratameno.
Verona, giugno 1941, prima della partenza per la Russia.
Foto ricordo inviata a mia madre, Laura, allora fidanzata e poi sposata nel gennaio 1947.
Giuseppe Licata nato a Vallelunga Pratameno (CL) l’8 marzo 1920 e morto a Palermo il 10 agosto 2013.
4° Centro Automobilistico di Verona dal 05-01-1941
La mia avventura inizia al Distretto Militare di Caltanissetta e li iniziano i colpi di fortuna o di sfortuna.
Io, a differenza di tanti altri amici e commilitoni, sono ritornato dalla Russia solo con un principio di congelamento che mi ha dato parecchi fastidi ma non mi ha reso la vita impossibile. Posso, ben a ragione, ritenermi fortunato ma capisco bene che le circostanze a volte possono determinare un’intera vita.
Ero al Distretto insieme ad un compaesano, Nino Piraino, e lui mi precedeva nell’assegnazione. Un ufficiale stava per assegnargli la destinazione ed aveva in mano la scheda di Verona, quando ci pensò un po’ su e poi gli chiese che mestiere facesse.
“Barbiere“.
“E allora — stabili, con qualche esitazione, l’ufficiale — sei assegnato al settore Servizi ad Imperia“.
Era poi il mio turno e la prima domanda che mi pose fu: “E tu? Che lavoro fai?”
Proprio in quel periodo io stavo seguendo un corso per corrispondenza e studiavo sui Manuali Hoepli, per capire qualcosa sulla meccanica delle automobili.
Cosi, orgoglioso dei miei studi che in verità in quel periodo e nella nostra zona non erano molto comuni, immediatamente risposi: “assistente autista“.
L’ufficiale non mi pose altre domande e subito stabilì il mio futuro militare: 4° Centro Automobilistico di Verona.
Così, era l’8 gennaio 1941, fu deciso il mio futuro militare.
Eravamo alloggiati nel paese di Tombetta, non molto distante da Verona, e più precisamente, nella sezione distaccata di Conceria che, come si capisce dal nome, era una vecchia conceria trasformata in distaccamento militare.
Mi divenne amico un commilitone di Milena, Ingrassia, e con lui alla 17,30 uscivo in libera uscita. Con lui prendemmo l’abitudine, quando rientravamo verso le 20,00 in caserma, di entrare nella chiesa dedicata a Santa Teresa del Bambino Gesù di cui divenni devoto e alla quale molto convenientemente promisi, se mi avesse protetto durante la guerra, di essere sempre fedele e di diffondere il suo culto.
L’altra sosta che facevamo giornalmente era presso una latteria. Il rancio serale era alle 17,00 poco prima della libera uscita, e di andare al ristorante non si poteva parlare per mancanza di ….tempo.
Divenne quindi un’abitudine fermarsi alla latteria, comprare una tazza di latte caldo e inzupparvi un pezzo di pane.
In quel periodo, nel mese di aprile, seguimmo dei corsi di guida e corsi di cultura generale per conseguire la patente di 1° e 2° grado e tutte le mattine ci recavamo a Riva del Garda, Desenzano, Bussolengo e dintorni con una decina di “Ceirano“, camion tipici di quei tempi, che in effetti erano dei Fiat Ter a gomme piene.
Io all’esame fui dichiarato tra i migliori e questo mi portò, nel mese di maggio, alla qualifica di autiere scelto ed il mese successivo caporale.
Io non gradivo tale nomina e, il giorno degli esami a caporale, dissi che stavo male e chiesi una visita medica.
Mentre ero in attesa di consegnare il mio corredo per andare in ospedale, il mio tenente fece presente al colonnello che io ero in elenco per gli esami del grado e suggerì che non era necessario farmi sostenere gli esami.
Il colonnello annuì, così fui promosso di grado e andai in ospedale.
Intanto nel giugno 1941 Mussolini proclamò l’entrata in guerra dell’Italia e nel mese di agosto si stava approntando il CSIR.
I1 16 agosto 1941 ero appena ritornato da una licenza agricola di 20 giorni, quando mi chiamarono in fureria e mi comunicarono che ero stato trasferito al 135° Autoreparto Pesante, creato nell’ambito del 5° Centro Automobilistico di Trieste, già mobilitato e pronto a partire da Verona per la Russia.
L’intero Autoreparto si era trasferito da Trieste a Verona per iniziare il trasferimento in Russia.
Dovevo quindi prepararmi a partire e versare ai magazzini tutti gli oggetti in mio possesso, perché anch’io ero immediatamente mobilitato per la Russia.
Mi rivolsi al mio capitano, che mi aveva dimostrato molto benevolenza, e gli chiesi perché di tutto il reparto fossi stato scelto io per la Russia e se poteva intercedere in mio favore.
Mi rispose che non poteva fare nulla perché la richiesta era specifica per un caporale (per sostituire un caporal-maggiore ricoverato d’urgenza in ospedale). Io ero l’unico caporale del 1920 e quindi abile a partire mentre quelli del 1921 e 1922 erano a disposizione del Ministero.
Così la sera stessa dovetti prendere le mie cose, lasciare a tutti effetti il 4° Centro di Verona ed essere incorporato nel 5° Autocentro di Trieste, 135° Autoreparto Pesante che aveva già iniziato il carico sul treno e sarebbe partito immediatamente da Verona, nell’ambito del Corpo di Spedizione Italiano in Russia.
Siamo partiti in treno da Verona la notte del 17 agosto. Tutti e tutto. Anche le nostre LANCIA RO, i nostri mezzi di trasporto, erano sul treno.
Il mio tenente si chiamava Maletti ed il capitano Nocentini.
Eravamo tutti molto silenziosi, il cuore e i pensieri erano per le nostre famiglie, e per il futuro che ci spaventava.
L’itinerario di viaggio fu: Verona, Bolzano, Brennero, Innsbruck per poi proseguire attraverso l’Austria, la Germania, la Polonia, l’Ungheria.
Giungemmo in zona operazioni il 19 agosto prima del confine dell’Ungheria con la Romania e precisamente a Marmaros Sziget (Ungheria).
Il giorno 19 mattina siamo scesi con i nostri mezzi dal treno, scaricammo tutto il materiale e in colonna iniziamo la scalata dei Carpazi con i nostri automezzi pesanti.
Erano i Lancia Ro, che non ci delusero sulle strade dei Carpazi, in pessime condizioni e molto tortuose.
Proseguimmo in colonna a salire per le montagne e ci addentrammo per oltre 100 chilometri.
La pioggia scendeva fitta, la giornata era scura ed accresceva il senso dell’ignoto e della paura che ci prendeva mentre ci addentravamo nelle foreste dei Carpazi.
Alberi da me mai visti, enormi, di un verde intenso e fittissimi di foglie, si alzavano altissimi al cielo più diritti di candele e talmente grandi che due uomini a braccia aperte a stento avrebbero potuto abbracciare il fusto.
La strada era pessima e tortuosa. La snervante e difficile salita durò quasi cinque ore e ci portò in un ampio prato, alla fine, con uno spazioso casolare proprio in cima alle montagne.
La pioggia non cessava e ci siamo fermati non più di mezzora per ammirare il panorama di tutto quel verde, ossessivo per me, ci rifocilliamo, ci riposiamo e tiriamo un respiro di sollievo per allontanare le prime paure.
Distanze calcolate con Google Map
Verona-Marmaros S. (Sighetu Marmație) km 1.300
Marmaros S. – Belcy (Balti) km 450
Belcy – Dnieperpetrovsky (Dnipro) km 850
Dnieperpetrovsky – Stalino (Donetsk) km 260
Stalino – Voroscilovgrad (Lugansk) km 168
Stalino – Millerovo Km 170
Millerovo – Stalingrado (Volgograd) km 386
Verona – Stalingrado (Volgograd) km 2.884
Riprendiamo poi la pericolosa discesa, ugualmente difficoltosa, e occorsero 3 ore per scendere a valle sotto una pioggia che non finiva mai.
Ai piedi dei Carpazi si stende la Bessarabia, piatta e noiosa, senza nulla che la ravvivi tranne qualche monastero isolato, ma noi non avevamo tempo e spirito per gite culturali.
Erano trascorsi solo quattro giorni da quando ero stato a casa, ma quanto erano lontani ormai quei giorni e i visi dei miei familiari.
La prima cittadina rumena incontrata è Soceava, dove abbiamo fatto sosta per un paio d’ore, cioè il tempo necessario per sgranocchiare qualche galletta con qualche scatoletta di carne. Riprendemmo la strada. Si avanzava sempre senza che noi sapessimo la destinazione.
Prima di sera, circa 30 Km dopo Soceava, ci siamo fermati alla periferia di un paese chiamato Botosani.
La gente incuriosita si avvicinava con tanta simpatia e cominciammo a familiarizzare con la popolazione a gesti, perché ancora non conoscevamo una parola di rumeno. Le strade erano pessime e fangose, ed era evidente la povertà, la miseria e la mancanza d’igiene (trovare acqua era molto difficoltoso).
A quel punto ci comunicarono che la nostra destinazione era Belzy (oggi Balti).
Passammo la notte a Botosani e la mattina seguente riprendemmo la strada per Belzy. Passammo per Florest, Galati e vari piccoli paesi.
Belzy (agosto 1941 — marzo 1942)
A Belzy ci fermiamo, perché qui vengono approntati i magazzini del C.S.I.R. che ci precede sotto il comando del generale Messe.
I magazzini sono pieni di viveri e vestiario e la città è sede dei servizi logistici del C.S.I.R.
Alla periferia della cittadina ci attendeva una guida che ci condusse alla periferia del paese, nelle vicinanze della stazione ferroviaria al momento inattiva, con un vasto pianoro adibito a deposito munizioni e materiale vario del comando tedesco.
Le guardie tedesche erano sempre attentissime a non fare avvicinare mai nessuno sia di giorno che di notte.
I nostri rapporti con loro erano basati sull’indifferenza reciproca e quasi mai ci furono contatti anche tra i militari della truppa.
Il comando venne alloggiato in una ampia casa rurale sufficiente ad ospitare anche la cucina, che provvedeva alle necessità del nostro reparto.
La cucina finalmente si mise in azione per preparare il primo rancio caldo da quando eravamo partiti, molto atteso dopo le solite gallette e scatolette.
Eravamo circa 100 autisti.
A noi, militari di “bassa forza”, venne detto di arrangiarci e di trovarci un alloggio nelle case dei civili.
Dovevamo comunicare, appena possibile, il nome degli ospitanti e l’indirizzo.
Così, senza conoscere una parola di rumeno, tutti partimmo alla ricerca di una possibile convivenza con la popolazione locale.
Nel nostro reparto eravamo soprattutto siciliani, calabresi, lombardi e veneti e, in genere, facevano gruppo per regione.
Un gruppetto di noi siciliani, sette, riuscimmo ad ottenere dalla famiglia di Iacov Roderzin, che abitava non molto distante dalla stazione, una spaziosa stanza e li sistemammo la nostra “casa”. Restai in quella casa per circa quattro mesi da agosto a dicembre 1941.
Il signor Iacov era sposato in seconde nozze con la signora. I figli della prima signora Roderzin erano tre.
Il grande di circa 40 anni di nome Stefano. Poi c’era un ragazzo di circa 20 anni ed un altro di circa 14 anni.
Questi ultimi due ragazzi non andavano molto d’accordo con la signora e spesso mi dicevano che la signora era ebrea (forse mi volevano spingere a denunciarla ai tedeschi).
Nel paese molte delle case erano isolate e recintate con listelli di legno o altro. La nostra casa aveva un cancelletto e a circa 15 metri c’era un gabbiotto con dentro il bagno rudimentale. Era costruito con tavole e anche il pavimento era anch’esso in listelli di legno. Al centro mancava un listello affinché tutto potesse cadere dentro la sottostante fossa.
Quando la fossa era piena si chiamava un addetto che provvedeva a svuotarla.
Comunicammo, appena possibile, subito al Comando il nome degli ospitanti e l’indirizzo.
Il capitano gradì molto la nostra sistemazione perché eravamo vicini al Comando ed in caso di necessità eravamo subito raggiungibili.
La popolazione locale ci accolse bene, nonostante le loro precarie condizioni economiche.
Noi tutti constatammo che, malgrado la loro povertà, erano con noi molto generosi e ospitali. La moneta normalmente usata era il leu.
I militari rumeni ricevevano 5 leu al giorno, mentre a noi in Italia veniva dato il corrispondente di 120 leu al giorno. I militari rumeni, si mostravano poi entusiasti della nostra presenza e ci trattavano come se fossimo tutti alti ufficiali, solo perché noi indossavamo le stellette.
All’inizio dell’anno nuovo quasi tutti quelli che alloggiavano presso famiglie fummo riuniti in un magazzino, tipo caserma. E li restammo per tutto l’inverno fino al marzo 1942.
A Belzy, comunque, rimanemmo abbastanza tempo per familiarizzare con la popolazione locale.
Appena presa conoscenza della zona, dopo alcuni giorni, iniziammo il nostro lavoro.
In linea di massima quando il fronte si spostava per distanze significative, si spostavano anche i magazzini in avanti o all’indietro al seguito delle truppe.
La nostra sede era sempre Belzy e lì, dopo tre mesi, all’arrivo dell’inverno, ci fermammo perché il freddo, la neve, le strade completamente gelate ci impedivano i movimenti.
Dai magazzini del Corpo di Spedizione, inizialmente approntati a Belzy, noi portavamo continuamente materiale alle varie colonne del C.S.I.R., superando il fiume Prut.
Eravamo praticamente adibiti dal Centro Logistico Trasporti Militari per portare qualunque cosa in qualunque destinazione materiale vario: alimenti, equipaggiamento e vestiario e più raramente munizioni.
Ci spingevamo avanti per 150-200 Km su strade di fortuna, a volte appena accennate e spesso senza adeguate carte geografiche.
Guidare su quelle strade, che non erano strade, autocarri, spesso senza sospensioni, era una fatica enorme.
Il paese era al centro di una ragnatela di stradine, viottoli e qualche strada (spesso in terra battuta) e dai nostri magazzini distribuivamo quello che occorreva a tutti i militari del settore.
Da Belzy, in Bessarabia, attraversammo spesso la frontiera per l’Ucraina a Kisinau.
Una solitaria capanna sul ciglio della strada era la sede della dogana, inattiva, fra i due paesi.
In Ucraina il territorio era identico alla Romania.
La miseria era uguale, la diffidenza prima e poi la calda accoglienza verso l’ospite erano uguali.
La prima cittadina russa, di una qualche importanza, che vidi fu Pervomaysk (cioè primo maggio), dove in seguito ci trasferimmo.
In tutti i viaggi notavo, meravigliato, le sconfinate pianure dell’Ucraina con terra fertile e di prima qualità.
L’Ucraina era considerata il granaio dell’Europa.
Nel mese di ottobre 1941, lungo la strada prima di arrivare a Pervomaysk, pioveva a cielo aperto. La pianura era immensa, attraversata dalla strada pessima e fangosa, e nei terreni si vedeva il grano non raccolto, a causa degli eventi bellici, ammucchiato in covoni in attesa della trebbiatura.
Restammo impantanati nel fango della strada ed a nulla valevano i nostri sforzi per tirarci fuori. Pensammo così di mettere questi covoni sotto le ruote sino ad uscire dal tratto fangoso.
A me, fino ad allora contadino, e che sapevo quanto costava un chicco di grano ma anche a molti degli altri (anch’essi contadini) piangeva il cuore nel mettere quei covoni sotto le ruote e l’operazione si svolse con qualche moccolo di troppo, cosa abbastanza insolita perché non si sentivano spesso delle bestemmie, ma eravamo tutti molto tristi e incavolati con noi stessi per quello che stavamo facendo.
Il Generale inverno, il freddo, il gelo ci avrebbero colpito, comunque, in qualunque periodo dell’anno.
Ricordo che verso la fine di agosto del 1941 un colpo di gelo, di notte, mise fuori uso tutti i radiatori delle macchine.
In inverno, solo per casi veramente eccezionali affrontavamo il rischio delle strade gelate, muovendoci sempre e solo in gruppo. I mezzi utilizzati erano dotati di verricelli e funi di acciaio.
L’inverno per noi fu rigido ma non pesantissimo. Eravamo di base dove si trovavano alcuni dei magazzini del C.S.I.R. e sopravvivevamo discretamente, dando anche qualche aiuto alla popolazione. Restavamo fermi a Belzy arrangiandoci nelle famiglie, con la loro ospitalità e la nostra disponibilità per le tante piccole incombenze necessarie in quelle case che spesso non avevano uomini che erano al fronte a combattere a volte contro di noi e a volte con noi.
Capivamo istintivamente che potevamo sopravvivere in quell’ambiente metereologicamente ostile, con il nostro equipaggiamento, solo se la popolazione locale ci proteggeva.
Cercavamo in tutti i modi di essere accettati come amici e “familiari” e spessissimo ci siamo riusciti.
Non ricordo di avere mai sentito che qualche locale abbia fatto azioni malevoli contro noi italiani, cosa che invece accadeva contro i tedeschi.
L’inverno ci porto tanta neve. Spesso, la mattina, dietro la porta d’ingresso la neve si era raccolta per 80-100 cm (secondo da dove spirava il vento) e per uscire dovevamo prima spalare la neve. Le poche macchine che venivano lasciate per i servizi urgenti e le macchine adibite alla scorta, restavano in moto per tutta la notte o la mattina venivano trainate per la messa in moto a strappi, finché riuscivano a partire.
All’inizio di marzo 1942 riprendemmo i normali viaggi di rifornimento per sfamare le tante bocche del C.S.I.R. e ci spingevamo sempre più verso i posti più avanzati del fronte.
All’inizio quasi tutti i viaggi erano per Pervomaysk, Debalzeu, Rikovo.
Nel marzo 1942 decisero il nostro trasferimento da Belzy a Pervomaysk.
La mia “famiglia” pianse per la mia partenza.
Il saluto fu veramente caldo e familiare. Come regalo di addio mi regalarono una bellissima tovaglia di colore rosa con tanti fiorellini ricamati di diversi colori e due quadretti lavorati a mano per ricordarmi di loro.
Era la famiglia Iacov Roderzin di Belzy.
La tovaglia è ancora conservata, in ottimo stato e spesso in varie occasioni la mettiamo a tavola e mi ricorda la cordialità e l’accoglienza del popolo rumeno.
Pervomaysk (marzo 1942 — aprile 1942)
A questo punto sottolineo che il nostro reparto era diviso in tanti gruppi o colonne di 5/8 automezzi e i vari gruppi facevano capo ad una cucina indipendente da quella dei reparti. La nostra cucina era gestita da un caporale di cucina di nome Tienco. Tutte le mattine lui si recava nei vari mercati e comprava quanto di suo gradimento e necessario per la giornata per tutta la forza presente: polli, tacchini, oche, frutta, caffè. Tutto. Perché la sussistenza era sempre o davanti o dietro di noi al seguito dei reparti.
Circa poi il nostro vestiario, nei primi tempi non avevamo di che lamentarci, però quando i mesi diventavano freddi e, in inverno le temperature erano veramente rigide, cominciammo a patire il freddo. Le coperte e il pastrano di gran parte dei soldati erano quelli che avevamo in Italia, mentre i magazzini erano pieni di pastrani foderati in pelle di agnello (!).
Dovevamo tenerci le scarpe che si andavano rompendo mentre nei magazzini restavano quelli a doppia suola che avrebbero potuto permetterci di sopportare tranquillamente il freddo e la neve.
Verso fine marzo fummo trasferiti a Pervomaysk
Lì ci arrangiavamo a dormire sulle macchine e occasionalmente presso qualche famiglia.
A Pervomaysk l’accoglienza non fu meno buona di quella rumena. Si fraternizzava subito con tanta cordialità.
Il mio servizio era quello di essere sempre in movimento in tutta la zona operativa per distribuire alla truppa il materiale che mi veniva comandato di distribuire.
Con questo mio servizio sono arrivato sino al Don, a Voroscilovgrad ed oltre.
Come caporale capo-colonna toccava a me stabilire la direzione, trarre me e gli altri autieri dagli impantanamenti e dai guai e parlare con tutti mantenendo buoni contatti con la gente del posto.
Subito presi conoscenza della lingua e la parlavo abbastanza correntemente.
Tutti mi dicevano, infatti, che potevo fare il “piriguecita” (interprete). Peccato che al ritorno in patria non ho avuto più la possibilità di coltivare la lingua. A poco a poco ho dimenticato quasi tutto e ricordo solo qualche parola.
Le abitazioni della gente di campagna attorno a Pervomaysk erano costruite con mattoni essiccati di argilla e paglia e alzate alla bella e buona. Il pavimento era anch’esso di argilla e per evitare che si incrinasse e mostrasse tutte le fessure dell’argilla essiccata, mettevano un tessuto di cotone bagnato tutte le sere sul pavimento e lo toglievano al mattino.
Dalla fine dell’inverno, quando le strade lo permettevano, si vedevano gruppi di persone civili che a piedi o con una rudimentale slitta si avventuravano verso i posti di guardia per potere trovare e comprare cibo. Noi militari avevamo il divieto di trasportare civili, ma incontrandoli sulla strada e in quelle condizioni, spesso a gruppi di cinque sei persone gli davamo volentieri un passaggio.
La gente apprezzava la nostra disponibilità e se ne ricordava.
Diverse volte, di sera, con il freddo, con la pioggia, dal camion ho chiesto agli abitanti locali se vi era la possibilità di farci riposare nella loro isba (casa) e nessuno mi ha mai detto di no.
La gente era molto ospitale e a noi italiani offriva tutto ciò che avevano con tanta generosità e talvolta con affetto.
Se invece davano qualcosa ai tedeschi era solo per paura ed era evidente.
In questo periodo il C.S.I.R. veniva inglobato nell’A.R.M.I.R., Armata Italiana in Russia, in via di formazione e dopo non molto tempo cominciarono ad arrivare truppe dell’Armata in treno con destinazione Kiev, Karcov e Debalzeu.
Il mio reparto, il 135°, fu unito al 32° Autoreparto Pesante ed aggregato all’Armata.
Stalino, Debalzeu, Rikowo
(aprile-luglio 1942)
Verso aprile ci spostammo verso Stalino e dormivamo sempre sui mezzi.
A luglio fummo di base a Rikowo.
Da lì una sezione venne distaccata a Debalzeu per trasportare carbone, dalle miniere alla ferrovia.
Debalzeu era al centro della zona dove si trovavano le miniere di carbone.
Un giorno, per curiosità, volli provare con un amico a scendere in miniera. Cominciammo a scendere ma dopo circa 300 gradini ci sentimmo oppressi dalla mancanza d’aria in un corridoio in discesa che non sembrava finire mai, soli con la luce di una lampada portatile da minatori che ci concedeva appena di vedere a meno di un metro dal nostro naso.
Decidemmo di interrompere l’esplorazione e di risalire sentendoci felici di non essere minatori.
A Debalzeu il nostro compito era quello di provvedere all’approvvigionamento del carbone fossile, in previsione dell’inverno che si avvicinava.
Per fare questo il Comando tedesco ogni mattina affidava al Comando italiano 10 prigionieri russi per caricare gli automezzi di carbone e 10 per scaricarli nei vagoni ferroviari. Ogni giorno si dovevano effettuare almeno sei viaggi.
In quella stagione la grande pianura che attraversavamo verdeggiava di barbabietole e di girasoli maturi e il pensiero andava ai prigionieri russi che, con i tedeschi, vivevano chiaramente di stenti.
Mi venne così in mente di raccogliere ad ogni viaggio una manciata di barbabietole e qualche girasole, da distribuire loro.
Un giorno ho assistito ad un episodio spiacevole. Durante lo scarico del carbone uno dei prigionieri si era appartato per un bisogno fisiologico e un nostro militare, notando la sua assenza, aveva immaginato una probabile evasione; contemporaneamente riapparve il prigioniero che si riallacciava la cintura, il militare non tenendo conto della situazione lo colpì alle spalle con il calcio del fucile, facendolo barcollare.
Io imprecai contro il militare, ed il prigioniero pur non comprendendo quello che dicevo, capì che ero intervenuto in sua difesa e il giorno successivo volle donarmi una cintura di vero cuoio e una piccola bussola, continuando a ripetere “spassiba, spassiba” (grazie, grazie).
Terminato l’approvvigionamento del carbone effettuammo, sempre per servizi logistici, altri viaggi per Stalino, Rikovo, Dnipropetrovs’k (oggi Dnipro).
Nel mese di maggio venni aggregato al 139° Autoreparto Leggero 3° Reggimento Autieri di Piacenza.
A Debalzeu ci cambiarono le macchine. Lasciammo le Lancia Ro e salimmo sulle Dovunque SPA che avevano una portata dai 25 ai 30 quintali.
Erano furgoncini con 6 ruote. Le ruote anteriori servivano per girare, mentre le altre quattro ruote erano di trazione e vi si potevano montare, all’occorrenza, dei cingoli sicchè avevamo le nostre “scatole armate”.
La parte anteriore poggiava su una unica balestra orizzontale di pessimo materiale per cui, a causa delle strade dissestate, spesso si rompeva.
Nella parte anteriore, la cabina di guida prevedeva il sedile per la guida ed un sedile unico per l’accompagnatore.
Il radiatore ovale, estraibile, scaricava il suo calore dentro la cabina per cui in estate si moriva dal caldo.
In inverno, invece, noi toglievamo il cofano ed il motore infuocato ci riscaldava un poco.
Dormivamo spessissimo sui mezzi e, pertanto, avevamo riservato 60 cm di spazio dentro la cabina, tanto quanto bastava per mettere due tavole larghe 30 cm che agganciavamo ai montanti dell’automezzo.
Da Pervomaysk successivamente cominciammo a spostarci verso Stalino e ci spingemmo successivamente ancora oltre verso Dniepropetrovsk.
A Rikowo, prima dell’arrivo dell’Armata, abbiamo trasportato molto materiale del Genio Pontieri. La località mi rimase impressa perché con l’arrivo dell’Armata, alla guardia di quel materiale venne assegnato un battaglione di cui faceva parte mio cugino Ciccino Dentico.
Mentre eravamo militari ci era vietato comunicare i luoghi dove eravamo. Così magari eravamo a pochi chilometri da parenti o amici e non lo sapevamo. Io, con il tipo di attività che svolgevo, ero libero di andare in molti posti vietati ad altri e parlavo con tanta gente.
Mio cugino mi aveva mandato una cartolina. Ho dovuto pregare mio cugino Ciccino Dentico, con mezze frasi, di scrivermi un’altra cartolina e farmi capire il paese dove si trovasse. Cosi lui fece ed io, appena fu possibile, andai a trovarlo.
In quel periodo io ero di base a Debalzeu, circa 20 km più avanti, sicché ottenni un permesso e con mezzi di fortuna militare sono arrivato a Rikowo, dove subito mi informai dove fosse la sede del comando che io cercavo. Mi spiegarono dove si trovava e subito mi avviai, dato che conoscevo la zona.
Era l’ora del rancio pomeridiano e c’era un’enorme folla di militari sbandati, malvestiti che erano fuggiti dal fronte, quando i russi cercavano di avanzare attaccando il fronte italiano, si diceva che facevano parte della Divisione Sforzesca, che essendo sempre pronta a retrocedere gli diedero il soprannome di “cikai“, che significa “fuggire”.
Alla distanza di circa 100 metri c’era un caporale di cucina che gridava a voce alta di mettersi in fila, altrimenti quelli fuori fila rimanevano senza rancio.
Io mi avvicinavo piano piano, fuori fila, chiedendo a qualcuno che parlava siciliano se conoscesse Francesco Dentico del Battaglione. Tra questi siciliani, molti erano di Cammarata, Mussomeli e paesi vicini.
Intanto quel caporale di cucina continuava a gridarmi di mettermi in fila. Dalla voce capii che era anche lui siciliano e chiesi chi fosse questo caporale. Un soldato di Mussomeli mi rispose: “È un tuo paesano e si chiama Trabonella Giuseppe”. A queste parole rimasi perplesso, poiché essendo vicini di casa, lo conoscevo con il nome di Pippinu Trabona e non Trabonella.
Continuai ad avanzare sempre fuori fila e lui imprecava a voce alta contro di me, sino a quanto a breve distanza mi riconosce e: “Ahò, Pippinu. Non pensavo che fossi tu“. Così ci siamo abbracciati e non appena terminò la distribuzione del rancio, chiacchierammo un poco. Lui mi disse che il giorno prima era andato a trovarlo Ciro Gulino, nostro compaesano (il quale sfortunatamente cadde in Russia). Poi mi indicò il luogo dove si trovava mio cugino Ciccino e dopo averlo salutato, partii per la ricerca.
Era l’imbrunire e faceva freddo; io indossavo il passamontagna di lana e quindi non ero riconoscibile. Arrivato nelle vicinanze del posto di guardia mi venne intimato l’alto là.
Io, dalla voce, riconobbi mio cugino e l’ho chiamato per farmi riconoscere, e lui solo dopo essere stato sicuro che ero veramente io, mi chiese di non proseguire e di andare ad aspettarlo al posto di guardia.
Quando smontò dalla guardia, ci siamo abbracciati ed abbiamo trascorso tutta la notte a parlare delle nostre famiglie e della realtà del momento.
Appena fatto giorno sono rientrato a Debalzeu, dove era la mia sede.
Dniepropetrovsk — Voroscilovgrad (agosto-settembre 1942)
Intorno al mese di agosto ci spostammo a Dniepropetrovsk. Questa, rispetto ad altri posti dove ero stato prima, era una città dove lo stato di guerra si toccava ad ogni angolo e vedere personalmente situazioni di cui avevamo solo sentito parlare dai vari abitanti, era come ricevere un pugno nello stomaco, e faceva molto più male dal momento che non potevamo fare niente.
Ricordo che un giorno passeggiando per il centro ho notato alcune persone impaurite che parlavano fittamente tra loro. Mi sono avvicinato e ho visto due uomini che erano stati impiccati dalle SS e che portavano al collo un cartello, scritto in ucraino, con la motivazione di quella esecuzione: erano partigiani.
La polizia tedesca quando sospettava la presenza di partigiani, circondava la zona e la perquisiva ossessivamente fino a quando non trovava i ricercati.
Un altro brutto ricordo è quello che riguarda gli ebrei. Avevano delle enormi stelle sulle giacche e sui berretti. Ogni mattina li vedevamo uscire dai campi di concentramento sorvegliati dalle guardie tedesche e portati in gruppo, senza distinzione di età o sesso, ai posti di lavoro.
Qualche volta li abbiamo visti salire sui carri bestiami delle ferrovie, stipati a forza e con destinazione ufficiale il lavoro in un’altra città.
Poi fummo trasferiti a Voroscilovgrad, sul Donez, in una grande caserma dove c’erano molti altri reparti.
Al mio gruppo venne destinata una cameretta con letti approntati al momento da noi stesi; è superfluo dire che i bagni erano fuori, al freddo gelido e vi si arrivava con una scalinata di circa trenta ripidi scalini. Ognuno si arrangiava come meglio poteva.
Li venne a trovarci Paolino Navarra di Enna, fratello del mio caro amico Sebastiano che era adibito in cucina.
Per i due fratelli ritrovarsi vivi e sani in Russia fu una enorme gioia. Io quella notte ero di guardia alle nostre macchine e fui contento di cedergli il mio letto affinché dormissero vicini.
Fu una tra le più gelide notti che io ricordo. Il cambio avveniva ogni venti minuti e dovevamo continuare a camminare senza interruzione per non congelarci i piedi, nonostante alcuni accorgimenti necessari.
Avevamo il passamontagna, un pastrano foderato con pelle di agnello e oltre le scarpe indossavamo un paio di stivaloni con le suole di legno e coprivamo le gambe avvolgendole per bene con della tela cerata, ma spesso tutto questo non bastava.
Al mattino salutai con un forte abbraccio Paolino che doveva raggiungere il suo battaglione. Quello fu un saluto d’addio, perché dopo poco cadde sul Don. Con Sebastiano, invece, siamo rimasti in contatto fino a qualche mese fa, quando è morto, e ci siamo frequentati anche con le famiglie.
Kantemirovka — Voroscilovgrad (settembre-ottobre 1942)
Da Voroscilovgrad, nel mese di settembre, ci spostammo a Kantemirovka sulla sinistra di Millerovo a circa 30 km.
A Kantemirovka restammo per circa un mese. Lì c’era un ospedale da campo e grandi magazzini e portavamo uomini e mezzi verso le prime linee.
Ormai non ci spostavamo più con tutto il reparto, ma a gruppi di cinque o sei macchine per zona e non avevamo più notizie l’uno dall’altro, forse perché ci avvicinavamo alle linee più avanzate.
Nel mese di ottobre mentre i russi già cominciavano ad avanzare, da Kantemirovka ritornammo a Voroscilovgrad. Poi ci spostammo ancora. Dapprima a Millerovo e poi alla più vicina Kantemirovka.
Kantemirovka (novembre-natale 1942)
Qui a Kantemirovka, dove siamo stati due mesi, si trovava l’ospedale del Battaglione, oltre ai magazzini. Spesso dovevamo riportare i militari dimessi dall’ospedale e idonei al Corpo dei loro reparti di prima linea.
Un giorno dovevamo accompagnare a Bukusciar e in alcuni paesini vicini una trentina di militari perché riprendessero servizio.
Le macchine erano cinque ed io, come sempre dato che avevo l’invidiabile grado di caporale, ero il capo-colonna.
Uscimmo da una parte del paese e …vi rientrammo dopo due lunghe ore di strada, evidentemente in circolo, da un’altra parte.
Non avevamo carte stradali, non esistevano cartelli indicatori, spesso non c’erano neanche le strade e ci aiutava solo la provvidenza, il buon senso, i ricordi di un precedente servizio, le indicazioni di altri militari o di gente incontrata per strada.
Riprendemmo quindi la strada in direzione di Bukusciar e il primo riferimento era un paesino di nome Kukusiova.
All’incirca dove avremmo dovuto deviare per Kukusiova incontrammo, ad un bivio, una pattuglia di tedeschi fermi a controllare la strada.
Chiesi loro notizie per Kukusiova. Anche loro non avevano notizie certe. Dalle loro carte, anch’esse imprecise per quella zona, ritennero di potermi indicare una strada.
Procedemmo per circa due ore senza trovare traccia di alcunché nè anima viva.
All’imbrunire, dietro una curva, trovammo all’improvviso la strada bloccata da un fortino di prima linea. Ci corre incontro un militare che ci blocca e ci dice che dietro la prossima curva, a meno di 100 metri ci sono i russi.
Avevamo superato, senza che ci fossimo accorti di nulla, le nostre linee e stavamo finendo in bocca ai russi.
Non finirò mai di ringraziare quel soldato italiano, dall’accento veneto, ma di cui non so altro, che ci fermò sulla strada sicura della morte.
Quel soldato, il cui comando si trovava a Bukusciar, finalmente ci dette le indicazioni giuste per arrivare a destinazione.
Lungo la strada di avvicinamento a Bukusciar, arrivammo ad un nostro caposaldo dove fummo accolti come salvatori.
In quella zona erano chiari i segni di una avanzata russa da un momento all’altro, e loro, pochissimi di numero, dovevano indietreggiare e non potevano farlo perché non avevano una goccia di benzina per i loro mezzi.
Mi supplicarono di aiutarli fornendo loro una tanca di benzina. Noi avevamo ordine di non fornire benzina a quanti ce la chiedessero “per strada” e potevamo consegnare solo quella che ufficialmente veniva loro assegnata.
Dopo qualche attimo di indecisione su come comportarmi, vista la gravità della loro situazione decisi di rischiare una punizione certa per avere loro ceduto parte della nostra benzina.
Noi portavamo sempre con noi un mezzo fusto di benzina per le necessità eccezionali della colonna.
Mi assicurai, innanzitutto, che i nostri avessero nelle loro tanche benzina sufficiente.
Era bastante per arrivare a Bukusciar purché non accadesse un imprevisto o non sbagliassimo strada.
Sperai nell’aiuto del cielo e cedetti loro tutta la benzina del fusto.
Ad ogni buon conto mi feci firmare un buono di consegna. E molti di noi cominciammo a pregare e sperare nella provvidenza per tutti.
Anche per me.
Quella notte dormimmo lungo la strada, come ci capitava di fare spesso.
Si fermavano i camion sul ciglio della strada.
Istituivamo dei turni di due guardie, uno sul primo camion e uno sul retro dell’ultimo e le guardie- a causa del freddo- svolgevano il loro turno restando spessissimo all’interno dei mezzi, fino a quando il calore del mezzo, lasciato col motore in moto per tutto il tempo, non faceva loro socchiudere gli occhi.
Fortunatamente quasi mai avemmo delle brutte sorprese.
La popolazione era ben disposta nei nostri confronti ed in genere eravamo lontani dalle file russe.
L’indomani arrivammo al nostro reparto e devo dire che il mio capitano, dal quale temevo una punizione, quando gli raccontai l’accaduto e gli mostrai il buono di consegna che mi avevano firmato, mi guardò, sorrise e disse che tra noi dovevamo aiutarci, soprattutto quando non c’era un superiore che ce lo impediva.
Ricordo un altro episodio avvenuto sempre vicino a Bukusciar.
Anche in questa occasione avevamo accompagnato alcuni militari della Divisione Sforzesca che dall’ospedale ritornavano “idonei” al corpo.
Eravamo una colonna di autocarri abbastanza numerosi comandata da un tenente e guidavamo da molte ore.
A poca distanza dalle prime linee, nei pressi di Bukusciar, eravamo sulla strada di ritorno ed eravamo affaticati (mi permetto di ricordare che guidare quei mezzi su quelle strade e con quel tempo non era un lavoro agevole).
Così ci siamo fermati alla periferia di un paesino chiamato Dubosar per riposare durante la notte.
Al mattino ci vennero incontro alcuni anziani e molte donne.
Le donne anziane ci facevano capire che erano cattolici e ci chiedevano santini e immaginette sacre o medagliette. Io guardai nel mio portafoglio, così come qualche altro, ed abbiamo dato quello che abbiamo trovato.
Le donne erano felicissime del dono e della nostra generosità e non avendo nulla da offrirci, volevano darci per forza polli e uova. Noi conoscendo le loro misere condizioni non abbiamo accettato ma li abbiamo moltissimo ringraziate per la loro generosità e disponibilità.
Qualche donna poi si mise, inspiegabilmente per noi, a piangere.
Capimmo poi che piangevano perché in un paese vicinissimo, dove erano fermi i tedeschi, questi uccidevano gli ebrei.
La mia conoscenza della lingua mi fece capire tutto subito, mentre i miei commilitoni non avevano ancora compreso.
Così spiegai loro cosa dicessero quelle persone e tutti decidemmo di andare a vedere se era vero, perché parlavano di molti morti.
I ragazzini ci accompagnarono sul posto e cosi siamo andati a vedere.
Ci siamo trovati davanti un grande caseggiato rurale con una recinzione in muratura, con una grande porta in ferro e una pianura ondeggiata con le fosse coperte da poco.
Alcune tombe erano ancora scoperte, poiché giornalmente venivano uccisi diversi ebrei.
Questi dopo avere scavato le buche venivano messi ai margini dei fossi e in fila, a 10 per volta, venivano fucilati e cadevano o erano poi spinti dentro le buche.
Le donne avevano addosso solo le sottane, mentre gli uomini erano in mutande.
Il nostro tenente, di nome Berger, aveva la macchina fotografica e scattò delle fotografie del posto dove avvenivano le esecuzioni.
Nel frattempo due tedeschi si accorsero della macchina fotografica e con le armi in pugno vennero a toglierci la macchina fotografica.
Estrassero il rullino e a stento e con molte insistenze ci ridiedero la macchina fotografica.
Dopo questo episodio siamo saliti sui nostri camion e nel primo pomeriggio facemmo ritorno a Kantemirovka.
Da Kantemirovka, dov’era la nostra sede, per circa un mese abbiamo svolto servizi di logistica nei dintorni.
Alla fine di ottobre le armate russe incominciarono a disturbare tutto il fronte rumeno/italiano e tedesco.
Infatti una mattina del mese di novembre, inaspettatamente, verso le 8,30 quattro carri armati leggeri si sono infiltrati nelle nostre file senza che nessuno se ne fosse accorto.
Hanno circondato Kantemirovka, posizionandosi sulle piccole alture attorno alla cittadina sparando alcuni colpi sull’abitato.
Uno dei quattro carri armati puntò sull’unica strada rettilinea, controllando così l’ingresso e l’uscita del paese.
La gente ai primi colpi si spaventa ed incomincia il fuggi fuggi. I nostri soldati ricoverati nell’ospedale da campo sono usciti tutti vestiti in qualunque modo, dirigendosi sulla strada principale.
Anche la popolazione civile faceva altrettanto con la speranza di trovare una via di salvezza.
Purtroppo ci furono numerosi morti e feriti.
Dopo questo bombardamento continuo, che durò circa mezzora, i quattro carri armati si sono ritirati indisturbati.
In questa occasione notai il comportamento dei soldati tedeschi che avevano i magazzini vicino a noi. Impassibili a quanto accadeva, con sigari in bocca e continuando a fumare, si caricarono tutto ciò che potevano e se ne andarono per la strada di Millerovo.
Noi italiani restammo lì, in attesa di .. …ordini.
Ritorno in Italia.
Voroscilovgrad — Dniepropetrovsk (dal Natale 1942 — marzo 1943)
Ai primi di dicembre arrivò l’ordine di rientrare a Voroscilovgrad e quanti restavano di noi autieri fummo trasferiti definitivamente al 139° Autoreparto leggero del 3° Reggimento Autieri di Piacenza quale centro di mobilitazione del 32° Autoreparto pesante.
A dire il vero nessuno mai mi ha comunicato alcunché su tutti questi passaggi da un gruppo ad un altro. Io li ho appresi successivamente dal foglio matricolare rilasciatomi dal Distretto Militare di Caltanissetta.
Così rientrai assieme a pochi compagni a Voroscilovgrad e venimmo alloggiati nella caserma dalla quale eravamo partiti nel mese di settembre.
Di tutto il reparto partito da Verona trovai pochissimi compagni, molti erano morti. Quelli di noi rimasti fummo suddivisi su tutto il fronte, aggregati o trasferiti.
Il mio comando si trovava a Voroscilovgraded ed aveva diverse macchine Dovunque Spa.
Quasi tutte le macchine erano nuove o relativamente nuove, ma difettose nelle balestre anteriori (che erano di ferro, scarsamente resistenti agli scossoni, non si piegavano bene e tendevano a rompersi continuamente).
Poiché i russi avevano iniziato la loro offensiva, per evitare che i russi potessero impossessarsi di tale macchine, ricevemmo l’ordine di tenerci pronti a rendere totalmente inefficienti o distruggere le macchine Dovunque Spa per non farli cadere in mano al nemico. Tutti eravamo in ansia per quanto stava accadendo perché il fronte non dava segnali rassicuranti. C’erano continui attacchi contro le linee rumene e italiane. Il 10 dicembre era ormai chiara l’avanzata russa. Le nostre divisioni, come la Cosseria e la Sforzesca, iniziarono la ritirata disastrosa.
Il nostro cuore gridava per come si stava svolgendo la ritirata. I commilitoni abbandonavano le armi anche quelle di difesa personale e tutto ciò che avevano.
Ridotti, per il freddo e la neve, con lacere coperte da campo sulla testa, i pantaloni sbrindellati e penzolanti senza fasce, spesso con le scarpe rotte, logorati da tanta strada fatta a piedi.
Anche gli ufficiali di alto grado a stento si portavano lo stretto necessario, trainandosi anche qualche improvviso slittino.
Nel vedere le nostre truppe in quella tragica ritirata veniva da piangere, ma purtroppo non c’era nulla da fare.
In questa circostanza il nostro Comando ci radunò e ci diede l’ordine che se l’avanzata dei russi non si fermava noi dovevamo mettere totalmente fuori uso i nostri mezzi per non lasciarli al nemico. Noi, quei pochi che eravamo rimasti, ci siamo guardati in faccia con le lacrime agli occhi ed abbiamo capito che molti di noi non avrebbero rivisto le famiglie.
Eravamo appena partiti da Voroscilovgrad nel primo pomeriggio, giornata buia e molto nevosa, con destinazione Dniepropetrovsk a bordo dei Dovunque Spa 35
Quel viaggio, sia perché eravamo a Natale sia perché abbiamo dovuto distruggere parecchi nostri mezzi, mi resta particolarmente vivo nella memoria.
Lungo la strada incontriamo una colonna armata tedesca che stava andando alla disperata difesa di Stalingrado.
Noi spostammo la colonna ai margini della strada per non intralciarli, visto che avevano grande premura.
Senonché, mentre eravamo sul ciglio della strada ghiacciata al fondo e con neve fresca da poco caduta, due macchine piano piano sono scivolate fuori strada, senza che ci accorgessimo del fatto, ed una si capovolse.
A nulla valsero i nostri tentativi di riportarli in carreggiata, nonostante che le nostre macchine fossero munite di verricelli (con poca forza). Quando l’autocolonna tedesca fu quasi tutta passata e restavano i loro mezzi di soccorso stradale, chiedemmo ad uno di loro di aiutarci. I loro verricelli erano nettamente superiori ai nostri e più potenti.
In breve tempo riportarono sulla strada i nostri mezzi. Ma poi per dispetto, per offenderci con la loro superiorità, per cattiveria o non so per quale altro motivo, non appena noi sganciammo il cavo dal verricello i tedeschi, senza neanche scendere dal loro veicolo, scaraventarono i nostri mezzi sull’altro lato della strada in un burrone e se ne andarono tra le nostre inutili proteste.
Noi dopo molto tempo, con molta fatica e difficoltà recuperammo le nostre macchine e proseguimmo il cammino.
In tarda serata la neve non cessava di cadere abbondantemente, il freddo era molto pungente e la temperatura era di 30 gradi sotto zero. Era impossibile proseguire e così ordinai di togliere il cofano interno del motore su tutte le macchine in modo che il calore del motore riscaldasse un poco di più la cabina e decisi di fermarci appena possibile.
Dopo qualche chilometro di quella strada ghiacciata, tra cumuli di neve che cominciavano a vorticare, giungemmo in un casolare con alte mura di recinzione ai margini della strada, come se fosse una fattoria.
Ci siamo fermati, posteggiando controvento e al riparo delle mura, lasciando i motori accesi. Dopo un poco si avvicina un ciluvich (un uomo) che ci saluta cortesemente “dobri veccer” (buona sera) e ci invita ad entrare in casa dicendoci che fuori c’era troppo freddo. Io, a nome di tutti, risposi spassiba (grazie) e siamo entrati per rinfrancarci un poco e passare la notte al riparo della bufera.
Come sempre i russi erano molto ospitali con noi italiani.
Non si può immaginare cosa si prova a trovarsi in guerra in un paese straniero ed essere accolti dal nemico ed avere riparo dal freddo gelido dalla Siberia che quando soffiava trasportava la neve in granellini che tagliavano la faccia.
Per loro noi eravamo gli invasori ma spontaneamente e, per pura generosità, essi ci offrivano la loro ospitalità semplice, modesta ma piena di cordialità e di calore che non era solo quello della stufa a legna.
Forse mai, come in quella occasione, io ed i miei compagni ci siamo sentiti vicini a quelle persone ed io (e qualche altro) mi sono vergognato di essere un invasore.
Noi italiani ci siamo sempre comportati bene con i russi e soltanto una volta assistei ad una manifestazione di cattiveria da parte di uno dei nostri (rimproverato, peraltro, da molti di noi).
Nel mio gruppo, poi, che era sempre in movimento per le strade spesso sconosciute e non segnalate nelle nostre carte, ho sempre fatto in modo che tutti fossimo cortesi e gentili con la popolazione russa alla quale spesso dovevamo anche appoggiarci per informazioni, cibo, ecc.
Devo dire che tutti capivano l’importanza di essere corretti con la popolazione e sia perché eravamo cortesi per natura sia perché lo dovevamo essere per convenienza, mai, ripeto mai, siamo stati trattati male dalla popolazione russa.
La casa in cui entrammo era quella tipica dell’Ucraina. Le case ucraine avevano un piccolo ingresso che conduceva in cucina, dove si trovava sempre accesa la “plitica” (stufa a carbone o a legna). Sulla stufa era collocata una grande pentola piena d’acqua per potere avere sempre una bevanda calda. A noi, come a tutti gli ospiti delle isbe, veniva offerto un vassoio con semi di girasole abbrustoliti che venivano sgranocchiati durante la conversazione. Questo ci ricordava le nostre feste paesane quando, durante la “passiata” noi sgranocchiavamo la “semenza”, semi di zucche abbrustoliti comprate alla bancarella.
In quasi tutte le famiglie che ho avuto la possibilità di frequentare, ho notato scaffali con libri di scuola, segno che tenevano alla cultura ed erano forse più istruiti di noi, almeno in quei tempi.
Talvolta con discrezione chiedevo loro quali fossero le loro condizioni di vita ed essi mi rispondevano che stavano bene e non mancava loro nulla ed erano convinti che la Russia non poteva perdere la guerra in quanto la combattevano in casa propria ed avevano a portata di mano tutto quello che occorreva e che vivevano nel clima al quale erano abituati, mentre noi eravamo molto lontani da casa, senza rifornimenti e con un clima a noi ostile.
Questo, purtroppo per noi, era tutto vero.
Dentro la casa c’era la moglie che subito ci offri un bel the caldo che ci ristorò immediatamente. Poi ci prepararono una cenetta calda a base di uova e noi in cambio demmo loro alcune scatolette di carne, bustine di gallette, viveri a secco che avevamo per il viaggio.
Fu una splendida ed indimenticabile cena di Natale. Restarono per un poco a chiacchierare con me (ed io traducevo per gli altri) del più e del meno, della guerra in corso. I miei compagni che non conoscevano la lingua guardavano a bocca aperta senza capire nulla e io riassumevo per loro i discorsi.
Dopo un poco loro si ritirarono in una stanza a dormire e noi militari ci siamo appoggiati al tavolo sonnecchiando per la stanchezza delle nostre fatiche.
I motori restarono accesi tutta la notte (come facevamo quasi sempre, perché il freddo era tale che anche la benzina gelava e poi era quasi impossibile ripartire con sveltezza).
La mattina prima di metterci in viaggio ci offrirono di nuovo un caldo the e ci salutarono calorosamente.
Io li ho ringraziati di cuore per la loro cortesia anche a nome di tutti i compagni e perché ci avevano aiutato in un momento di difficoltà e, dopo averli tutti noi abbracciati, con fatica ci separammo da loro.
Era il giorno di Natale ed eravamo tutti veramente tristi. Più avanti ponemmo i cingoli ai due assi posteriori dei nostri Dovunque Spa per potere procedere, in caso di necessità, come un carro armato e riprendemmo la nostra strada per Dniepropetrovsk.
Con la grazia di Dio, nonostante la tempesta di neve continuasse, intorno alle 14,00 abbiamo raggiunto la nostra destinazione dopo che al reparto era stato già distribuito da più di un’ora il rancio del giorno di Natale.
Il Comando, per farci riprendere dalla fatica e dal freddo, diede subito ordine di prepararci un pasto caldo solo per noi e tutti ci fecero gli auguri e dopo il rancio ci vennero date delle caramelle.
A Dniepropetrovsk il Reparto cui fummo aggregati non aveva spazio disponibile per alloggiarci e allora, come al solito, ci diedero facoltà di arrangiarci presso qualche famiglia del vicinato.
Presi con me un altro siciliano di Trapani e mi diedi da fare per trovare un alloggio. Riuscii a farci accogliere presso una famiglia composta da due sorelle anziane ed una nipote, Ljuba, giovane di circa 35 anni, moglie di un tenente ucraino. La famiglia da tanto tempo non aveva notizie di questo tenente a causa della guerra in corso.
Il mio amico venne sistemato al piano terra della casa e a me prepararono una sistemazione al primo piano dove dormiva l’intera famiglia e al quale si accedeva da una scala esterna di circa 10 gradini. Sotto la scala c’era un’alcova vuota dove, quando cominciarono i bombardamenti aerei russi (dopo che l’America riempì la Russia di tutto il materiale possibile e immaginabile) mi nascondevo per guardare la contraerea sparare agli aerei e da lì vidi il mio primo attacco aereo a bassa quota nel cielo di Russia.
Al primo piano c’erano quattro stanzette ed in una di queste, vicino all’ingresso, mi prepararono un lettino con della biancheria pulitissima e profumata. Le condizioni economiche della famiglia erano appena sufficienti. Una delle signore era stata impiegata alle poste e percepiva una pensione non sufficiente al mantenimento di tutte e tre, l’altra era casalinga.
Ricevevano qualche piccolo aiuto anche da un’altra nipote, dottoressa presso l’ospedale di Dniepropetrovsk, la quale veniva a trovarle dapprima sporadicamente e poi, dopo che ci conoscemmo, abbastanza spesso perché voleva sentire parlare dell’Italia.
Quando veniva mi diceva sempre: “Josef, ga vai sigaro?” (mi dai da fumare?).
Tiravano avanti aiutandosi con sacrifici e rinunce. Tutti i sabati una di loro si recava al bazar a vendere qualcosa, anche biancheria e indumenti, e compravano l’essenziale per sopravvivere.
Certo non navigavano nell’oro, ma poiché mi accolsero come un ospite gradito, direi quasi un figlio, preparavano pure per me un piatto e, se non ero presente, lo conservavano fino al mio arrivo.
Questo tenore di vita duro poco più di due mesi. Nessuno ci cercava e nessuno domandava di noi. Gironzolavamo sempre attorno al Comando solo per prendere quel poco di rancio che veniva distribuito. Per noi italiani, ma in quel periodo anche per i tedeschi, il rancio era molto ridotto.
Vedendomi trattato come un figlio, quel poco di rancio che ricevevo al Comando lo portavo tutto alla famiglia, sicchè era una vera convivenza familiare (devo comunque testimoniare che molti di noi “invasori” si comportavano nello stesso modo con le famiglie presso cui si trovavano e questo contribuiva molto a rasserenare gli animi e a rendere bene accetti gli italiani).
Io abituato a stare sempre in movimento, soffrivo molto a restare inattivo e poiché si vedeva e si sentiva la disfatta delle nostre truppe stavamo sempre in ansia per quello che accadeva.
La “mia” famiglia mi dette molta fiducia fino a consegnarmi le chiavi di casa dicendomi che se loro uscivano per vari motivi o se io mi fossi ritirato tardi potevo entrare a qualunque ora come uno di famiglia.
Un giorno a pranzo parlavamo con le signore della situazione di noi italiani e sia a me sia al mio amico di Trapani vennero le lacrime agli occhi e le signore russe cercavano di consolarci dicendoci che ci avrebbero aiutato in ogni caso.
Demoralizzati uscimmo con il mio compagno e camminando a passo svelto siamo arrivati in periferia dove, casualmente, visitammo un cimitero di guerra grandissimo di italiani, rumeni, tedeschi, raccolti dai cimiteri improvvisati subito dopo i combattimenti. Tra le tombe, molte erano di bersaglieri siciliani. Nel vedere le tombe di tanti militari, siamo usciti senza potere dire una parola e rientrammo a casa, ospiti delle famiglie russe nostre nemiche
Ai primi di marzo 1943, il Presidio ci informò di tenerci pronti al trasferimento in Bielorussia.
Quando lo comunicai alla mia “famiglia”, mi hanno guardato in faccia e a questa notizia si sono messe a piangere: avranno pensato che questo mio trasferimento fosse dovuto al fatto che i russi avanzavano, cacciando via i tedeschi e gli italiani, perché loro seguivano le notizie alla radio russa (era presente in molte case ed aveva un’unica stazione).
Vedendomi triste per la disfatta dell’armata italiana, che già si capiva, mi dicevano: “Joseph, tu sei patriottico(!). Rimani con noi. Non avere paura. Ci siamo noi e puoi restare nella nostra casa. Ti nasconderemo noi”.
Rispondevo che non era possibile, perché dovevo ubbidire agli ordini.
I giorni passavano senza fare niente ma la notte, a letto, si pensava sempre a cosa fare e a quale era per me la cosa migliore: restare o partire.
Alcuni di noi decidevano, infatti, di restare confidando nella buona accoglienza della popolazione o in rapporti più stretti che si erano formati con qualche famiglia e aspettare la stabilizzazione per poi ripartire (in realtà, pochissimi di quelli volontariamente rimasti sono ritornati in Italia o hanno fatto avere loro notizie).
Un pomeriggio ci venne ,dato l’ordine di partenza per l’indomani. Non dissi nulla alla mia famiglia. L’indomani, di primissima mattina, presi tutte le mie cose e le sistemai davanti la casa aspettando che la casa si svegliasse.
Appena alzate capirono che ero pronto a partire.
Tutte e tre mi hanno abbracciato e piangendo mi ripetevano sempre: “Joseph rimani con noi”. Alla fine, facendomi forza mi svincolai da loro, scesi di corsa per l’ultima volta la scala della casa e mi avviai velocemente verso il Comando senza girarmi a guardare. Ricordo ancora la via: Uliza (via) Trececelievka, Dniepropetrovsk.
Arrivato al Comando trovai tanta confusione. Sistemammo le macchine per partire ed eravamo pronti ma non ci venne comunicata la destinazione. Eravamo in tutto circa trenta e ci guidava un tenente. Si vociferava che dovessimo dirigerci verso la Bielorussia (chiamata anche Russia Bianca), ma nessuno sapeva cosa dovevamo fare.
Cominciammo a dirigerci verso la Bielorussia e strada facendo incontrammo una immensa pianura paludosa. In un punto asciutto ci fermammo a riposare e a sgranocchiare qualche galletta. Il tenente guardando la carta geografica ci disse che quella era la palude del Pripett dove l’esercito in ritirata di Napoleone venne quasi totalmente distrutto, un poco più avanti, nell’attraversamento della Beresina.
Ci comunicò, inoltre, che all’ultimo momento aveva ricevuto l’ordine che tutta la colonna andasse a Minsk, dove in appositi reparti ospedalieri avrebbero effettuato su di noi la disinfestazione per il tifo pidocchiale e che dopo la disinfestazione saremmo rientrati in Italia.
A queste parole il nostro cuore si riempi di gioia visto che si rientrava in Italia sani e salvi, anche se le nostre menti erano rivolte a tutti coloro, la maggior parte, che sfortunatamente dopo avere sofferto tanti sacrifici non ritornavano con noi dalla Campagna di Russia.
Era la fine di marzo 1943.
Giungemmo a Gomel in Bielorussia e per tre giorni sottostammo alla disinfestazione personale e di tutto il nostro corredo e poi a Minsk, dove continuarono la disinfestazione.
Dopo alcuni giorni ci portarono in una stazione ferroviaria e da lì siamo partiti in treno per l’Italia attraversando parte della Polonia. Ricordo che attraversammo un fiume su un ponte di ferro sopraelevato per diversi chilometri.
Sostammo per un giorno in Germania nella stazione di Dusseldorf e da lì il treno proseguì per Innsbruck.
Ad Innsbruck sostammo per mezza giornata. Accanto alla stazione c’era una banca e ci diedero la possibilità di cambiare la moneta (alcuni di noi avevano marchi, lire italiane di occupazione, rubli, ecc).
Nel primo pomeriggio ripartimmo da Innsbruck ed arrivammo al Brennero.
Inutile dire la gioia immensa nel rientrare, dopo tanti sacrifici, sul suolo italiano.
Destinazione del treno: Bressanone.
Era il 3 aprile 1943.
Fummo avviati verso delle caserme e lì abbiamo lasciato tutte le nostre armi (io avevo sei bombe a mano Balilla, una pistola Beretta 7,65, un moschetto corto), la biancheria di corredo e ci fecero spogliare di tutto quello che avevamo addosso per curare con particolare attenzione tutte le parti del corpo.
Dopo alcuni giorni ci trasferirono a Vipiteno e lì, dopo un’altra disinfestazione ed una rasatura generale, restammo in quarantena. Finalmente, dopo questi 40 giorni, in data 28 maggio 1943 ci diedero una licenza di 30 giorni.
Insieme alla licenza ricevei l’ordine di rientrare, dopo, a Milano essendo stato aggregato al 3° Reggimento Automobilistico Milano. Così finì la mia Campagna di Russia.
Cosa ricordo o meglio chi ricordo oggi dopo che sono passati 62, 63 anni?
Ricordo tanti compagni e amici, di moltissimi di loro ricordo ancora i nomi. Qualcuno l’ho rivisto dopo anni. Qualcuno l’ho cercato e non l’ho trovato. Con alcuni mi sono visto spesso e sono stato ospite da loro e li ho ospitati. Voglio citare in particolare Sebastiano Avara di Enna, con il quale spesso ci siamo incontrati con le rispettive famiglie e ci siamo tenuti telefonicamente in contatto, finché non è morto.
Ricordo la disponibilità, la generosità, l’umanità della popolazione rumena ma soprattutto di quella russa che ci fu vicina in molti momenti di difficoltà. Ricordo pochissimi fatti militari perché non ero nelle prime linee ma nei servizi logistici.
Non voglio ricordare lo strazio del freddo, del congelamento, delle morti bianche. Molte cose le ho deliberatamente rimosse dalla mia memoria non solo adesso che ho 87 anni, ma anche quando ero molto più giovane e tutti mi invitavano a raccontare della Russia.
Qualche volta ho sentito qualcuno dire che era stato in Russia e raccontare cose senza che fossero vere. Molti si sono inventati un passato quasi che essere stati in Russia fosse una medaglia al valore.
Io ho fatto la campagna di Russia, non ero nelle prime linee e per mia fortuna non ho sofferto tanto quanto hanno sofferto tantissimi poveri commilitoni che, solo per caso, sono diventati soldati di prima linea come io sono diventato autiere. Ringrazio il cielo. Ho solo avuto un piccolo congelamento alla mano sinistra e mi è rimasto piegato il mignolo ed un poco l’anulare della mano sinistra ma sono riuscito a rientrare in Italia.
Quando entrarono gli americani io, come tutti, non potei attraversare la linea del fronte e restammo al di qua della linea d’occupazione. Lo Stato, anni dopo e senza che ne sapessi alcunché, mi ha ripagato condannandomi in contumacia per diserzione perché non rientrai a Milano. Il danno e la beffa.
Saputolo, circa vent’anni dopo, ho fatto ricorso e dopo il processo sono stato riabilitato.
Ai pochi rimasti di questa tragica Campagna la gente ha sempre dimostrato vicinanza e affetto ma lo Stato ha riconosciuto il suo debito esclusivamente con due simboliche Croci di Russia al Merito di Guerra e la Medaglia Croce di ghiaccio o dei Quattro Fiumi (Prut, Dnieper, Donez e Don). Nient’altro.
Quando eravamo in Russia il Comando Tedesco ci aveva dato il nastrino della Campagna (che portavamo tra due bottoni della giubba).
Quindi? Meglio rimuovere tutto dalla memoria personale, lasciando alla storia il compito di dare o togliere medaglie.
Non posso o non voglio ricordare e citare tutti gli amici e compagni morti in Russia. La memoria li ha deliberatamente oscurati per evitare tristi ricordi ossessivi.
Voglio solo ricordare, personalmente, alcuni commilitoni ritornati con me dalla Russia in Italia, che mi sono stati compagni e amici in terra di Russia tra il freddo e le fatiche e che, nel corso di questi 60 anni ho rivisto spesso, sempre con affetto e amicizia (qualcuno solo poche volte, altri più spesso): Alberto Gentile di Palermo, Vito Butera di Alcamo, Giuseppe Del Sarto di Trapani, Sebastiano Navarra di Enna, Carmelo Sambuca di Enna, Ottavio Italo di Rometta.
Oggi credo di essere uno dei pochi sopravvissuti.
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(NdR)
Per dare un’idea della vita dell’autiere nella Campagna di Russia riporto, di seguito, alcune pagine stralciate dalla pubblicazione edita da RIVISTA MILITARE, 1995, autori Valido Capodarca , pubblicata su INTERNET il 6 Aug 2018, al seguente indirizzo
https://issuu.com/rivista.militare1/docs/1995-_immagini_ed_evoluzione__2__te
IMMAGINI ED EVLUZIONE DEL CORPO AUTOMOBILISTICO
VOL II 1940-1945
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La rapida avanzata delle unità nel periodo agosto/dicembre 1941, se mise a nudo le carenze organizzative, l’inadeguatezza dei mezzi, la vetustà dei veicoli, l’egoismo dell’alleato, pose però in luce il valore e lo spirito di sacrificio degli autieri.
Le condizioni ambientali ebbero un peso rilevante nell’effettuazione dei trasporti: la maggior parte degli itinerari era costituita da piste di larghezza variabile, prive di massicciata, senza un vero e proprio “corpo stradale”, un andamento planimetrico lineare e uno altimetrico a lievi pendenze, secondo la nota plastica del terreno.
Soltanto in corrispondenza degli impluvi esistevano pendenze accentuate, ma limitate a brevi tratti.
I fiumi maggiori erano spesso superati con ponti di legno a doppio transito; quelli minori mediante guado.
Le citate piste formatesi per la naturale costipazione del sito erano di solito accompagnate ai due lati da tratturi con analoghe caratteristiche.
Purtroppo nei periodi asciutti la polvere era anche causa di precoce logorio dei motori; invece quando pioveva il terreno argilloso le rendeva impraticabili.
Quando il terreno era in fase di rassodamento, sia per prosciugamento sia per gelate, ogni movimento doveva essere sospeso in quanto i solchi che si formavano erano tali da bloccare la marcia dei mezzi, che toccavano il terreno con il telaio.
Le cose ovviamente non andavano meglio per le truppe appiedate; l’argilla si attaccava compatta alla suola delle scarpe, come colla, per 2/3 centimetri e staccarla non era facile oltre che inutile, in quanto dopo due passi si era punto e a capo.
In qualche caso, lungo le piste principali, correva la palificazione telefonica.
Talvolta la delimitazione era costituita da caratteristici paletti segnalanti il ciglio della strada, sormontati da un ciuffo di paglia, a intervalli di circa 50 m., indispensabili alle squadre spartineve; erano questi i rassicuranti punti di riferimento per noi autieri nelle lunghe tappe tra le nebbie e le tormente.
Nelle vicinanze dei centri abitati poteva trovarsi qualche breve tratto a fondo artificiale, in genere acciottolato.
La zona di Stalino (odierna Donetszk) era la più all’avanguardia, con una estesa rete stradale di modello europeo, soggetta a manutenzione da parte di un servizio delle strade, che poteva avvalersi all’occorrenza di mano d’opera ora militare ora civile ora dei prigionieri di guerra.
L’andamento climatico fu notoriamente il primo fattore condizionante dei movimenti logistici ed operativi a cominciare dalla lenta e faticosa avanzata della Pasubio in agosto.
Particolarmente ostili furono il mese di ottobre e la prima decade di novembre quando i movimenti delle autocolonne di rifornimento e delle artiglierie furono inesorabilmente rallentati.
Per tutto l’autunno gli uomini effettuarono rifornimenti di ogni genere, spesso fino alle primissime linee, al limite dell’incoscienza, superando le indicibili difficoltà frapposte dal fango.
Ciononostante con pesanti lavori stradali, l’Intendenza pose in atto ogni sforzo per assicurare lo stretto indispensabile alle unità operanti a est del Dnieper, per 200 / 300 km dalla base ferroviaria di Dnieperpetrovsky.
In qualche caso il traffico fu dirottato sulla massicciata ferroviaria.
L’attività di recupero dei mezzi in questo periodo assunse particolare importanza e spesso negli ordini del giorno dei reparti comparivano attestazione di merito e lodi.
Arrivarono le prime gelate. Dapprima furono solo notturne. Gli autieri, impediti dal fango, dovevano attendere la notte, col terreno ghiacciato, per riprendere il movimento; ma poteva avvenire, se non si stava attenti, che l’0acqua delle pozzanghere divenisse per le ruote una morsa invincibile, bloccando l’automezzo.
A metà novembre le prime provvidenziali gelate rassodarono il terreno.
La favorevole circostanza perdurò per circa un mese e tutta l’organizzazione ne trasse vantaggio.
Il gelo colse di sorpresa non poche unità automobilistiche e non, essendo giunto improvviso.
L’acqua del sistema di raffreddamento divenne una massa di ghiaccio che incrinava i monoblocchi di quei motori ai quali, per dimenticanza o incuria non era stata scaricata l’acqua.
Le conseguenze furono che l’Intendente generale Biglino diede disposizioni affinché i danni venissero addebitati ai conduttori responsabili; in tal modo il nome del generale Biglino divenne per i comandanti degli autoreparti e per tutti i conduttori, il nome del terrore.
A dicembre, nuovo disgelo, nuovi impantanamenti.
Incessanti le ricognizioni tese ad individuare altri percorsi e possibili soluzioni ad ogni sintomo di miglioramento del tempo.
Con l’arrivo dell’inverno giunse il gelo stabile, ma arrivarono anche copiose nevicate, compromettendo la transitabilità soprattutto dove le bufere accumulavano ingenti masse di neve.
Il comando tedesco emanava allora direttive tendenti – dato il previsto ridotto flusso di automezzi – a far profittare della circostanza per incrementare il gettito delle riparazioni con la prospettiva di trarre vantaggio nella successiva primavera, alla ripresa delle operazioni.
Le divisioni, pertanto, avrebbero dovuto concentrare i veicoli da riparare lungo le strade di arroccamento e di rifornimento, da dove sarebbe stato più agevole sgomberarli verso le officine di riparazione.
Il servizio delle strade fece del proprio meglio per garantire la viabilità; eresse barriere frangivento, utilizzo spartineve (beninteso a traino animale) e mobilitò centinaia di elementi locali.
Il mezzo meccanico, di massima, veniva risparmiato in previsione di una imminente penuria di carburante.
Le nevicate furono particolarmente copiose in gennaio.
Le autocolonne sorprese lungo i tragitti e specialmente in marcia notturna furono falcidiate e ci furono molti congelamenti.
Le piste vennero disseminate di mezzi inefficienti.
A fine gennaio la paralisi del traffico divenne totale.
Si tentò allora, senza successo, il ricorso al trasporto ferroviario.
Solo il trasporto automobilistico in effetti poteva assicurare la continuità dell’interminabile filo di collegamento tra la madrepatria e i reparti.
Ogni possibile provvedimento teso al benessere del personale e all’affidabilità dei veicoli venne attuato. Si ridussero i tragitti scaglionando in profondità gli autoreparti e dove possibile vennero costituiti punti di ristoro per gli uomini provati dalla fatica e dal freddo.
Furono organizzati parcheggi nelle piazze protette dai fabbricati e si scaglionarono lungo le strade principali di movimento piccole officine.
Si tratta, tuttavia, di semplici palliativi.
Se resse lo spirito degli autieri non altrettanto si può dire della resistenza dei mezzi meccanici.
Il parco era molto eterogeneo ed era allora formato, secondo i dati riportati in una relazione dell’intendenza, da 4600 automezzi è il 1550 motomezzi.
Con l’Armir si sarebbero quadruplicati.
Si trattava, tuttavia, di veicoli in massima parte già impiegati nelle campagne sul fronte occidentale greco e jugoslavo, costituiti da circa 100 furgoncini, 47 modelli di autocarri tra leggeri medi e pesanti, 7 di trattori e trattrici e quattro tipi di officine.
Sugli automezzi provenienti dalla requisizione si rese necessario apportare non poche modifiche con conseguenti problemi nella gestione delle riparazioni.
Gli automezzi in organico al 2° Autoraggruppamento – si stralcia dal diario dell’Unità – sono nella stragrande maggioranza automezzi di requisizione a gomme semi pneumatiche, già sfruttati per il lungo chilometraggio già percorso sia in pace sia sul fronte occidentale e iugoslavo.
Pochi sono quelli venuti in Russia senza un precedente logorante stato di servizi
Sulla loro scarsa idoneità a muovere fuoristrada sembra superfluo intrattenersi.
Qualche spostamento era possibile solo con fango non abbondante e con l’uso di buone catene di aderenza.
Di veicoli cingolati o semicingolati esisteva una modesta aliquota.
Con le strade in simili condizioni gli organi a subire la maggiore usura erano naturalmente quelli della trasmissione e soprattutto le sospensioni.
Fin dall’inizio i cosiddetti “autoguasti” si moltiplicarono a causa delle difficoltà a reperire ricambi per un così ampio campionario di veicoli.
Alcuni episodi diedero adito al sospetto che qualcuno in patria remasse contro: si attendevano, ad esempio, pompe di iniezione per autocarri e quando le casse arrivarono e vennero aperte, dentro si trovarono copertoni per biciclette diretti ai bersaglieri in Africa. Disguido o sabotaggio?
Purtroppo si era partiti senza scorte, sia presso i reparti sia addirittura presso il Parco Speciale Automobilistico.
La temperatura di quelli inverno restò memorabile (sembra che il termometro abbia oscillato a lungo tra i -25 e i -35 gradi, toccando punte di -43).
L’inverno passato agli annali sarebbe stato quello tra il 1942 e il 1943 per le vicende ad esso collegate, ma quello che lo precedette era stato ancora più rigido tanto che – sono gli stessi autieri a sostenerlo – se il secondo inverno fosse stato come il primo, nessuno sarebbe tornato a casa vivo.
Ogni sera, al rientro, si dovevano smontare le batterie, che venivano portate dentro le izbe utilizzando delle slitte. Al mattino, due ore prima della partenza, con lampade a benzina si provvedeva allo scongelamento e riscaldamento dei vari organi dell’automezzo.
Nonostante il rigore del clima, gli autieri guidavano ugualmente. Nessun affidamento poteva essere fatto sull’esperienza degli ufficiali, speso sottotenenti di prima nomina, talmente ferrati in materia di automobilismo da ignorare perfino che qualche volta si doveva cambiare l’olio al motore.
Ognuno doveva fare ricorso alla propria audacia, ma soprattutto all’inventiva. I capi colonna, sergenti e caporali, con la loro esperienza erano gli insostituibili punti di riferimento.
Quel terribile inverno gli autieri dovettero trascorrerlo con il pastrano, mentre sembra che i magazzini traboccassero di giubbotti imbottiti.
Molti furono costretti a tagliarsi barba e baffi, che a nulla servivano se non a fare da intelaiatura per i cristalli di ghiaccio che si formavano con la respirazione.
Quando la distribuzione del vino avveniva all’aperto, per fare le parti si usava … l’accetta.
Un grande aiuto, ai nostri soldati, venne dagli ucraini, che molti ne ospitarono nelle loro isbe. Erano queste nulla più che capanne. Dotati di estrema dignità i russi non chiedevano nulla e accettavano serenamente la loro povertà.
Le mamme russe ebbero, verso i nostri soldati, lo stesso amore e le stesse premure che esse nutrivano per i propri figli, e sostituirono mirabilmente le mamme italiane lontane.
La diretta conoscenza da parte delle popolazioni si sarebbe rivelata una fortuna per coloro che – fatti prigionieri – vennero portati in zone dove erano state precedentemente conosciuti; ben diversa sarebbe stata la sorte di chi ebbe la sventura di essere deportato dove questi contatti erano mancati.
Gli autieri andavano, sulle piste gelate dalla neve, seguendo le indicazioni di appositi cartelli, ma bastava che una raffica di vento, o una mano ostile, girasse la freccia e si finiva da tutt’altra parte.
Di notte, spesso, l’unico punto di riferimento era offerto dalla luna o da piccole bussole.
Più frammentarie sono le notizie pervenuteci in merito al servizio rifornimenti materiali per le riparazioni.
Le carte, spesso, sono fuorvianti, in quanto sembra che molti materiali siano stati assegnati proprio “sulla carta” e basta.
Si dà per certo, infatti che il Parco Speciale Automobilistico arrivò in zona senza ricambi, sì che fu necessario reperire in loco ciò che urgeva, come l’acciaio per il ripristino delle balestre, soggette ad alto tasso di usura.
A Budapest furono acquistati grossi quantitativi di pneumatici, liquido antigelo, catene di aderenza, cavi rimorchio, equipaggiamento per autieri.
Tali materiali giunsero a Belzy in settembre e, successivamente, a Dnieperpetrovsky.
Peraltro, presso le stesse località, quasi contemporaneamente, giunsero dall’Italia modeste aliquote di materiali vari la cui distribuzione, da parte del P.S.A. (non ancora compiutamente strutturato), risultò alquanto problematica.
All’inizio del ‘42 vennero fornite alcune visiere termiche per vetture ed arrivò l’antigelo in quantità quasi sufficiente.
Vennero fornite anche lampade sul genere di quelle usate dagli idraulici, con le quali dirigere la fiamma sui cilindri o sui cambi, allo scopo di scaldarli e facilitare la messa in moto; per gli automezzi pesanti veniva anche usata qualche “torcia” (legno avvolto di stracci imbevuti di gasolio) da porre sotto il cambio per liquefare l’apposito “composto”.
Nonostante gli sforzi profusi, tuttavia, non fu mai possibile mantenere un accettabile livello di efficienza.
Si stralcia, ancora dal diario del 2° Autoraggruppamento “la riparazione o la sostituzione dei vari organi non può ripristinare una capacità di prestazione che solo una revisione generale e totale, eseguita dalle case costruttrici, renderebbe possibile…. La dimostrazione della realtà di quanto si afferma l’l’ha offerta la marcia di trasferimento da Pawlograd a Stalino del 96° autoreparto pesante.o a.r.p. che ha visto fermarsi circa l’80% degli automezzi in movimento.
Non si nasconde la preoccupazione relativa a quello che sarà l’assillante problema dei trasporti per via ordinaria nei prossimi mesi onde sopperire sia alle normali necessità sia a quelle che si manifestassero in conseguenza di una ulteriore avanzata.
Temperatura massima -18 gradi, minima -28.
Per far fronte all’ incalzante incremento delle inefficienze, l’Intendenza, specialmente nel durissimo mese di gennaio del 1942, puntò soprattutto sui trasporti ferroviari.
All’arrivo del disgelo nel mese di marzo vennero proibiti i movimenti su piste a sfondo naturale; in pratica, tutte quelle esterne alla città o ai grossi centri abitati.
Il minor utilizzo portò ad un certo aumento del livello di efficienza, poiché si ebbe più tempo da dedicare alle riparazioni.
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