Spine d’Euphorbia
di José Russotti
A cura di Michele Barbera
Chi non è mai stato a Malvagna, una terra sospesa fra la Valle dell’Alcantara ed il cielo etneo, non può comprendere e capire sino in fondo Josè Russotti, celebrato artista poliedrico, che fonde in uno raro e splendido connubio, l’espressione viva del suo vivere l’arte: pittore non massificato, dai tratti autenticamente originali, per tecnica e contenuti, e cultore acuto, estremo e raffinato dell’arte dei versi.
Nella silloge Spine d’Euphorbia Russotti ha distillato purezze emozionali in solfeggi di versi sciolti, arricchiti da un’armonia di respiro universale. L’essenzialità profonda ed intimistica della poesia di José Russotti la si intravede sin nella tela cha anima la copertina della silloge. È un suo quadro, in cui nudità essenziali, dolorose, fanno da contrappunto ad una quotidianità metafisica, espressa in un semplice e simbolico filo da lavandaia spoglio, che taglia l’orizzonte del dipinto. Quel quadro è una finestra nell’anima, il fotogramma di un disagio doloroso, scolpito nel nero-profondo della roccia lavica, ripiegata su se stesso.
Uno strano matrimonio quello tra il dolore dell’uomo e la grandiosità della natura: Josè Russotti ama la sua terra, soffre per essa e la sua musa lirica si nutre direttamente ed attinge sacralmente al genius loci, di cui diventa vestale fedele e custode appassionata dell’oikos d’ellenica effige.
Non c’è una semiologia unica nei versi, ma, seguitando il pensiero del filosofo acheo, nulla di ciò che riguarda l’uomo è estraneo al poeta, il vissuto emozionale – creta informe – diventa magma da plasmare, lava stratificata dalla memoria, che talvolta lambisce e talvolta travolge il senso stesso della vita universale. Nella poesia di Russotti c’è la condanna alla “nostra insulsa indifferenza”, c’è la mano tesa ai “neri invisibili”: “sono voci che chiamano e si cercano/negli occhi sgranati dentro un vuoto di nulla”. C’è Malvagna, c’è l’Alcantara, c’è la Sicilia, c’è il mare, c’è una natura ed un paesaggio urbano “non convenzionale” che diventa rifugio, guaritore e panacea dell’animo umano, tempio indissolubile, ma anche timore per l’“amaro evolversi”: “che ne sarà di queste case di calce erosa/ e pomice di lava antica?”, dove riecheggia, acuta, l’eco ancestrale delle leopardiane e fatali magnifiche sorti e progressive che pure Russotti reinterpreta in più punti con l’insistente richiamo alla “ginestra”, resiliente metafora del male di vivere.
Nell’ipogeo poetico di Russotti si agita inquieto lo spettro di mille tempeste, di mille passioni e di una memoria storica striata da tenui rimpianti e da vividi dolori. “Ne rimane lieve memoria/fissata nel lampo/ d’uno scatto istantaneo…nei ripensamenti acuti/fitto di trame crudeli”. Il tazebao poetico di Russotti diventa tela bianca in cui fissare ritmi e sinfonie policrome, all’insegna del più puro spirito espressionistico, in cui la realtà è fortemente caratterizzata ed enfatizzata da colori e scene dolorose e violente, che, come in un agone prometeico, danzano “dentro un fuoco di lava”. In questi tratti emerge la passionalità assolutizzante di Josè Russotti che, in tema d’amore, non ammette compromessi: “era come un cercarci tra pazzia e dolore/ tra parole di collera e notti insonni”. Le spine “aguzze” d’Euphorbia diventano metafora dell’amarezza del sentimento inespresso: “come spine aguzze d’Euphorbia/serbo ancora sul volto/ le lacrime amare del congedo”, o anche afflato d’amore sensuale e tormentato: oh amore amaro senza nessuna lusinga…/ di spine acute d’Euphorbia nei fianchi!/ Rimani davanti alle mie mani e lasciati cullare”. Ma se l’amore è dolore, è allo stesso tempo speranza che dà voce alla memoria ed ai rimpianti. Così è per il dolce ritratto della madre, forte e delicato, “presenza divina”, “brace per l’inverno inoltrato”, e mentre nell’attimo fatale del distacco, “un silenzio assordante/di carne lacera/ s’impossessò/ di quella stanza/ austera”, il poeta-figlio rimane“inerme/nell’angolo mesto della pena”, piange “dolorosamente/adagio…/per non destarla”. Anche l’amicizia diventa per il poeta un aspro terreno di scontro in cui dolore e destino non risparmiamo fendenti, talora mortali. Allora, accanto al “grido sconfinato” per la morte dell’amico Salvatore Gaglio, poeta anche lui, Josè Russotti adagia il suo icastico memoriale: “e in questa nuda Sicilia che tanti amasti/ solo le lacrime bagneranno i fiori del tuo giardino”.
Le poesie della silloge sono, perciò, calde digressioni, variazioni sull’empatia universale, venate da malinconica e struggente saudade di cui pure, per la nascita sudamericana, la vena poetica di Josè deve averne parte. Nella consapevole fuggevolezza dell’esistenza “breve” e nella coscienza della precarietà del domani, il poeta si rivolge alla coscienza collettiva della sua città natale per esorcizzare, con un ferale monito a non piangerlo, l’”inavvertito congedo” di chi “vive il dolore”. Lo stesso topos, sommo e tragico, lo ritroviamo nella lirica dedicata al padre: “è soltanto un attimo veloce/come sguardi rubati al tempo/ perché l’età avanza e cancella”.
L’esiziale fine della vita, il tema della morte-distacco-abbandono che “passa addosso”, ineluttabile e crudele, costringono Josè a cercare spazi da riempire con sentimenti veri, che veicola per il lettore, con messaggi subliminali per sconfiggere l’”angoscia dell’attesa” , egli dà al lettore un filo d’arianna, un viatico spirituale: “ti lascio una crepa di lava/ dove ho deposto la mia pazienza” .
La lava è l’archetipo naturistico, l’ossimoro poetico di Josè Russotti: è la linfa della terra, vita e distruzione, ma è anche tomba, custodia ancestrale, culla-bozzolo:“nessuno/avrà rimpianto/della mia pelle/sporca di contrasti./ Nessuno/poserà un fiore/sulla stele di lava brunita”.
L’esistenza umana per José è un gioco tragico di ombre e luci, in cui i protagonisti sono preda di un destino che si fa beffa di loro. Per avere la nostra parte e viverla appieno, dobbiamo spogliarci di ogni orpello ipocrita, metterci a nudo con gli altri, servirli dei nostri sentimenti, dell’autentica debolezza del nostro cuore, che trabocca d’amore di creature imperfette, sino a divenire elogio stesso dell’imperfezione.
La vita è, in ultima analisi, un gioco delle parti, una commedia. Se non divina, umana. Come direbbe Nietzsche, sin troppo umana.
Michele Barbera