Riflessioni di Pierluigi Tamborini su
I PROMESSI SPOSI di Alessandro Manzoni
State tranquilli. Non mi sfiora nemmeno l’idea di scrivere una recensione sul capolavoro del Manzoni.
E’ quanto di più lontano voglio fare, anche perché sarebbe quantomeno presuntuoso credersi all’altezza di poterci arrivare.
No, il mio scopo è un altro. Ho rimesso mano a questo testo dopo una vita. Era dagli anni del Liceo che non aprivo proprio quel libro, ancora pieno di annotazioni e scarabocchi, gli stessi che abbiamo fatto tutti ai tempi della scuola. Una sottolineatura, un rimando, un appunto. Roba da studenti.
Certo alcune frasi (Questo matrimonio non s’ha da fare. Il coraggio, uno se non ce l’ha, non se lo può mica dare. La sventurata rispose. Lo sciagurato Egidio) ci hanno accompagnato per tutto questo tempo, sono rimaste come fari nella memoria. Tante altre invece erano andate perdute e ora sono state ritrovate.
Nessuna recensione, ma una riflessione. Quanto diverso è un libro di tal calibro, letto per piacere e non per dovere, quanto diverso è letto a 18 anni o quando ormai si è diversamente giovani?
Sembra una banalità e invece potrebbe aprire un dibattito abbastanza interessante. I grandi classici restano sempre gli stessi, noi cambiamo e con noi cambia anche la percezione che abbiamo di essi.
E allora questo non può essere altro che un invito a riprenderli in mano, magari con calma, un capitolo ogni tanto, per ritrovare la bellezza di alcune descrizioni, la forza di un’analisi storica, l’attualità di un testo che il tempo non è riuscito a scalfire.
Permettetemi soltanto una piccola annotazione. Sicuramente la maggior parte di voi ha in casa I promessi sposi. Vi invito a rileggerne un paio di pagine, di cui conservavo una memoria sotterranea.
Ricordo che il professore a scuola ne aveva parlato come “il pezzo di bravura del Manzoni”.
Sono due paginette nel capitolo XXXIII quando Renzo, dopo le sue vicissitudini milanesi rientra a casa e rivede la sua vigna gravemente ferita dal tempo e dagli uomini.
“Povera vigna” scrive il Manzoni, parlando del podere di Renzo, abbandonato e devastato dopo il passaggio della peste e dei lanzichenecchi. Un piccolo trattato di botanica che ho trovato semplicemente entusiasmante, lo sfogo della natura che non si cura delle umane vicende ma va avanti. Le creature del mondo vegetale rivendicano il loro anarchico bisogno di sole e di essere, in un tripudio di piante selvatiche che seguono una legge scritta a loro esclusivo uso e consumo.
Un piccolo capolavoro all’interno di un grande capolavoro.