A proposito di … … …

       Avvertenze

La sillabazione talvolta non è corretta. Mi scuso, ma non riesco a dare le giuste impostazioni al mio computer che procede, in autonomia, a cesure e sillabazioni insolite.
Dopo una prima ed una seconda rilettura, con le opportune modifiche già apportate e nuovamente non considerate, ho rinunciato.
In materia sono un autodidatta con tutte le certezze e gli errori del neofita. Nella prossima vita cercherò di seguire dei corsi di formazione, prima di utilizzare un personal computer.

La collocazione delle “Memorie“  di Giuseppe Licata nel sito www.unipoppalermo.it è episodica ed occasionale e risponde solo all’urgenza di avere un sito dove pubblicarle.

Già da tempo mi sono reso conto di avere fatto il grandissimo errore di non avere ascoltato con il dovuto rispetto mio padre che voleva raccontarmi i suoi momenti di vita in Russia.

Da quando, liceale,  ho sentito una prima e una seconda volta i suoi racconti,  ho sempre cercato di sfuggire le occasioni in cui lui avrebbe voluto parlarne.
Solo quando mio padre superò gli 80 anni io mi sono prestato ad ascoltarlo, ma lo facevo per assecondare, come dicevo a me stesso, le sue necessità di persona anziana.

Non ho capito la sua necessità di avere una persona con cui condividere i suoi dolorosi ricordi.
Anzi spesso ho provato insofferenza.

Non raccontava mai, all’esterno della famiglia, quanto aveva vissuto  e  in famiglia limitava le sue parole e forniva sempre un quadro d’insieme doloroso e pesante ma accettabile.

Solo a me cercava di raccontare i suoi racconti  più crudi, ma io prestavo orecchio solo qualche volta.
Era, con il senno di poi,  come se avesse bisogno di condividere almeno con una persona la sua intima sofferenza. Ma io non ho capito.
Inizialmente voleva insegnarmi qualcosa e trasmettermi le paure e i dolori di una generazione per formarmi alla vita e non dimenticare.
In ultimo non voleva parlarne. Mi raccontava qualcosa solo se io insistevo ripetutamente nel farlo parlare, per vincere il suo mutismo.  In questi casi sono talvolta venuti fuori episodi  mai raccontati in precedenza (o da me non ricordati). Flash di memoria incredibili dopo tanti anni dagli eventi, con nomi, date, luoghi ancora vividi. O forse questa è proprio la memoria degli anziani?

Oggi rimpiango ogni secondo di quei momenti in cui voleva trasmettermi l’intimità della sua memoria e maledico la mia stupidità.

Aggiungo che le  “MEMORIE” che si decise a scrivere nel 2008, su pressione di Pino Piraino che stava scrivendo sui tanti vallelunghesi morti e dispersi in Russia, sono solo la parte che ha voluto rendere pubblica dei tanti racconti che mi ha dato.

Riporto, di seguito, quanto scrive il Piraino nella prefazione del suo libro ”Vallelunghesi caduti e dispersi in Russia”:

“… … … quest’ultimo (Giuseppe Licata), dopo il rimpatrio, non è riuscito a parlare della sua esperienza in modo esplicativo nemmeno con i propri familiari; deliberatamente desiderava rimuovere dalla memoria quella terribile esperienza.  Una situazione psicologica, la sua, comune alla quasi totalità dei reduci di Russia, giustificata dagli eventi estremamente crudeli verificatisi nel corso della guerra e soprattutto durante la ritirata.  Lo dice anche Eugenio Corti, reduce di Russia, scrittore. “… Non a caso, dopo il ritorno, molti non sono letteralmente riusciti a parlare … Non era possibile parlare a casa, con le madri, le mogli, i parenti. Non c’erano parole per rendere ciò che era successo”.

Così come stavano le cose, difficilmente Giuseppe Licata avrebbe raccontato al sottoscritto i suoi ricordi di guerra.  Tuttavia dopo mesi di insistenza con delicatissime esortazioni… Giuseppe Licata… quando ha capito quali erano le mie reali intenzioni (cioè la ricerca dei Vallelunghesi Caduti e Dispersi in Russia da me intrapresa), ha ceduto, e grazie anche alla conoscenza e alla stima che nutriva nei confronti dei miei genitori, dopo lunghe conversazioni sulla sua “Campagna di Russia”, senza mai soffermarsi su particolari momenti di sofferenza personale, ha scritto i suoi ricordi di guerra mettendole a disposizione ed in appendice alla mia ricerca.”

 

La campagna di Russia 1941-43 è e rimane uno dei buchi neri della storia d’Italia, sia per come venne condotta, sia per gli effetti che ancora oggi scontiamo.
La scoperta nel 2016 di una fossa comune a Kirov (800 km a NE di Mosca) con i resti di prigionieri italiani, tedeschi e ungheresi morti probabilmente durante il trasferimento in treno verso i campi di prigionia sovietici (dopo essere stati catturati nel ribaltamento del fronte russo nel gelido inverno 1942-1943) è solo un segno di quell’immane tragedia che inghiottì 95.000 soldati italiani sui 230.000 partiti.
Kirov svela che molti soldati trovarono la morte non sul campo di battaglia ma prigioneri in campi di concentramento e gulag sparsi per la Russia del nord.

I 120.000 reduci, tornati in patria, furono messi da parte, perché «con il loro repertorio drammatico di sofferenze, che sembravano impossibili, erano la prova vivente di un’avventura militare sconsiderata, del fallimento del regime e del paese. Si decise perciò di non dare troppa pubblicità e lasciare che il tempo portasse tutto nell’oblio» (Maria Teresa Giusti, nel libro “La campagna di Russia 1941-1943”).

 

QUADRO D’INSIEME

  Ho voluto  premettere il QUADRO D’INSIEME e la PREMESSA che seguono  per collocare la Campagna di Russia italiana, e le esperienze di mio padre, nella grande operazione “Barbarossa” lanciata da Hitler con un fronte di guerra che andava dal Mare Baltico al Mare d’Azov.

Oltre alle mie tante letture debbo molto a internet, ricchissimo di testi e foto sull’argomento. Cito, tra gli altri,  https://www.meteolive.it/news/Climatologia/14/l-inverno-che-cost-la-guerra-a-hitler-gelo-e-neve-protagonisti/80622/.

Le foto, tranne quelle personali, sono prese da internet.

 

L’inverno che costò la guerra a Hitler: gelo e neve protagonisti

E’ questa la cronaca degli effetti dell’inverno 1941-1942, il più freddo del XX° secolo, che con le sue tempeste di neve cambiò il corso della seconda guerra mondiale.

Regione di Mosca, dicembre 1941. I tedeschi sono a poche miglia dal loro obiettivo. Il teatro del Bolshoi e le guglie dorate del Cremlino sembrano a portata di mano ma gli uomini della Wehrmacht stanno sperimentando la prima sconfitta della guerra.
Sognavano una vittoria facile e invece adesso si ritrovano a mani nude.
Fucili e mitragliatrici non possono più sparare: il gelo li ha resi inutilizzabili così come ha congelato il carburante di camion e mezzi corazzati.

D’altronde temperature così rigide stanno cogliendo di sorpresa anche i sovietici che al freddo dovrebbero essere abituati.
Comprensibile quindi la disperazione dei tedeschi. Equipaggiati in modo drammaticamente inadeguato si sono ormai ridotti a rubare cappotti e coperte ai loro compagni già morti nella neve.
Un’armata allo sbando che ormai risponde a stento agli ordini e cerca una via di fuga con i piedi che congelano dentro scarpe troppo leggere per quell’inferno di ghiaccio.

E’ questa la cronaca degli effetti dell’inverno 1941-1942,  il più freddo del XX° secolo, che con le sue tempeste di neve cambiò il corso della seconda guerra mondiale.
Tanto che per la prima volta i comandi tedeschi videro fallire la Blitzkrieg, la loro famosa guerra lampo.

 

Nella cancelleria del Reich erano già preoccupati da tempo.
Gli inverni 1939-1940 e 1940-1941 erano stati più freddi del solito. E proprio Mosca nel gennaio del 1941 aveva avuto quella che ad oggi rimane la temperatura più bassa mai registrata nella capitale russa: –42.2°C.

Ma Hitler non volle ascoltare ne i suoi meteorologi ne tanto meno i suoi generali. E quando gli si ricordò che due secoli prima in Russia la guerra contro Napoleone l’aveva vinta il gelo il Fuhrer non sentì ragioni e decise comunque per l’attacco.

 

Scattò così nel giugno del 1941 l’operazione “Barbarossa” per conquistare l’Unione Sovietica. Tre milioni di uomini e decine di migliaia di mezzi destinati, secondo le aspettative di Hitler, a una trionfale marcia estiva dai campi di grano dell’Ucraina fino a Mosca prima che l’inverno si facesse sentire. All’inizio fu un successo ma poi a ottobre qualcosa cambiò.

Il 7 di quel mese cominciò a nevicare abbondantemente con almeno un mese di anticipo rispetto al solito. Le temperature non erano ancora però così basse da permettere alla neve di congelare al suolo.

 

Le truppe del Reich si trovarono così impantanate in quella che i russi chiamano rasputitsaun mare di fango che ricopre le strade e blocca qualsiasi movimento. Camion e rifornimenti tedeschi infatti non riuscivano a procedere. Così come gli aerei della Luftwaffe non potevano decollare da campi di volo ridotti in acquitrini. Tanto che anche i famosi panzer nonostante i grossi cingoli si muovevano solo di poche decine di metri all’ora in tutto quel pantano. Questi rallentamenti nell’avanzata rischiavano naturalmente di mettere in discussione l’intera invasione dell’Unione Sovietica. Ma quello che i tedeschi non immaginavano era che il peggio doveva ancora venire.

 

A Berlino, desiderosi di chiudere nel più breve tempo possibile la partita decisero di lanciare l’operazione “Tifone”: la capitale doveva essere presa a tutti i costi. Le armate tedesche si prepararono quindi a un attacco su larga scala ma il generale inverno volle dire la sua.
A novembre 1941 quello che fino a quel momento era stato un inverno anticipato si trasformò repentinamente nella stagione più rigida che la Russia ricordasse.
La regione di Mosca, che solitamente registra temperature medie tra i -1°C e i 3°C nel mese di novembre, e tra i -3°C e i -7°C nel mese di dicembre, quell’anno vide la colonnina di mercurio precipitare fino a -20°C.

 

Nel suo diario di guerra il maresciallo Fedor Von Bock, comandante delle armate tedesche, scrisse che già il 5 di novembre la temperatura era di -29°C, che scendevano ulteriormente a -30°C il 24 dello stesso mese. L’alto comando tedesco, pianificando l’operazione “Barbarossa”, era certo che per la fine dell’anno i suoi soldati avrebbero festeggiato la vittoria tra vodka e champagne nel tepore delle residenze moscovite. Non si erano quindi preoccupati di fornire vestiario invernale se non a poche unità combattenti. Al contrario dei comandi russi che equipaggiando le truppe con scarpe di feltro e cappelli ricoperti di pelliccia permettevano ai loro uomini di  muoversi agevolmente nelle campagne sferzate da vento e neve.

 

A dicembre intanto le temperature scesero ulteriormente fino a -40°C.
Il 5 del mese i tedeschi subirono poi il contrattacco sovietico e i combattimenti si protrassero fino al febbraio del 1942. Fu un calvario. Ridotti ormai allo stremo dalle proibitive condizioni meteo gli uomini della Wehrmacht iniziarono a ritirarsi. L’alternativa era morire per mano del nemico o congelare. Le temperature infatti non accennavano a risalire. Tanto che proprio nel mese di gennaio nella cittadina di Rzhev, vicino a Mosca, si registrò la temperatura più bassa mai registrata dalle truppe tedesche in Russia: -42°C.

Per il 1941 il generale inverno aveva presentato il suo tragico conto agli invasori. Le cifre ufficiali parlano di 35.757 morti, 128.716 feriti e 9.721 dispersi tra le truppe tedesche.
Ma secondo numerosi autori i caduti tedeschi potrebbero essere stati anche 200.000.

 

 

PREMESSA

Anche l’Italia, presente dal mese di luglio nella zona più meridionale del fronte d’attacco “Barbarossa”,  ebbe ovviamente molti morti ma, sostanzialmente, nel 1941, primo anno di guerra,  la situazione, anche se critica, fu sopportabile perchè in quel primo semestre della Campagna si avevano ancora attrezzature e vestiario accettabili e l’avanzata si fermò per fare passare l’inverno.

Per noi tutto era iniziato l’anno prima, il 10 giugno 1940, quando Mussolini dal balcone di Piazza Venezia a Roma aveva messo l’Italia contro il mondo intero, dichiarando la guerra.

L’invasione della Russia, nel luglio dell’anno successivo,  fu un’operazione voluta fin dall’inizio da Mussolini, sulla quale erano scettici parte dei comandi italiani e lo stesso Adolf Hitler, che nel corso dei mesi precedenti aveva già sperimentato quanto l’esercito italiano fosse impreparato alla guerra moderna.

Hitler si fidava così poco dei suoi alleati italiani – nonostante la stima personale che aveva per Mussolini – che non diede loro notizia dell’invasione fino alla notte del 22 giugno 1941, pochi minuti prima che l’artiglieria tedesca aprisse il fuoco sulle postazioni russe.

Mussolini volle partecipare all’impresa per sedersi al tavolo della distribuzione dei beni russi (in primis il petrolio del Caucaso) e per estendere la propria influenza nell’area orientale del Mediterraneo.

Sarebbe stata una guerra per la supremazia mondiale e per il predominio ideologico e questo spiega le terrificanti distruzioni compiute dai tedeschi sul fronte orientale (qualcuno parla, tra militari e civili, di 27 milioni di morti sovietici), massacri e violenze di ogni genere.

*****

Quando la Germania dichiarò guerra all’Unione Sovietica, Mussolini decise che l’Italia non poteva essere estranea all’operazione “Barbarossa” ed ordinò, 10 luglio 1941,  l’allestimento di un Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) costituito dalle Divisioni di fanteria autotrasportabile Pasubio e Torino, la 3a Divisione Principe Amedeo d’Aosta detta “Celere” (formata da Bersaglieri e dalla Cavalleria) e dalla Legione Camicie Nere Tagliamento. Al comando il generale Giovanni Messe.

Il C.S.I.R., che era posto alle dipendenze della 11a Armata Tedesca, iniziò la partenza dall’Italia il 10 luglio 1941 via ferrovia verso l’Ungheria; giunse nella Moldavia romena e da lì venne fatto proseguire con i propri mezzi verso le zone di radunata.

Fino ai primi di ottobre, avanzò combattendo sino al bacino minerario del Donez, zona dell’Ucraina tra i fiumi Dniestr e Don a sud di Kiev.
A metà novembre 1941 conquistarono gli importanti centri di Stalino, Nikitovka, Gorlovka e Rikowo. Poi l’inverno terribile bloccò ogni movimento.

Il CSIR era stato messo in piedi frettolosamente il 10 luglio e per la fine del mese quasi tutte le truppe erano schierate nel sud dell’Ucraina.

Le tre divisioni e la piccola legione comprendevano circa 62.000 uomini, compresi i reparti della Logistica, del Genio e della Sanità.

Tutti  clamorosamente impreparati alla guerra moderna.

C’erano così pochi automezzi che soltanto una delle tre divisioni poteva essere autotrasportata, mentre le altre due avrebbero dovuto procedere a piedi (di fatto gli autocarri furono usati più o meno a turno, trasportando ora questa ora quella divisione).

L’aviazione era poco numerosa e l’artiglieria era costituita in gran parte da cannoni già utilizzati durante la guerra in Libia, circa 40 anni prima.

Per quanto riguarda i carri armati, la situazione era ancora peggiore.
Ce n’erano appena 60, di cui 20 furono subito ritirati per essere utilizzati come serbatoi di parti di ricambio per gli altri 40.
E in più erano piccoli, lenti, mal corazzati, male armati e del tutto incapaci di far fronte ai carri armati russi.

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E’ noto che i tedeschi non preventivarono nel 1941 la protrazione
della guerra fino all’inverno, che affrontarono in condizioni di equipaggiamento disastrose,

Il CSIR  ricevette per tempo oltre all’equipaggiamento invernale normale un congruo numero di cappotti foderati di pelliccia e di indumenti di lana, tanto da poter affrontare l’inverno 1941 in condizioni sopportabili (ma si trattò di un inverno trascorso senza spostamenti, con le truppe acquartierate nei villaggi russi).

Inizialmente le operazioni andarono molto bene e gli italiani avanzarono al fianco dei tedeschi, generalmente con ruoli di supporto.
Le unità di carri armati tedesche compivano avanzate rapidissime che isolavano gruppi di decine e a volte centinaia di migliaia di soldati russi.
Toccava poi alla fanteria tedesca e a quella italiana eliminare gli ultimi rimasti a combattere e raccogliere i prigionieri.

Nel corso di uno di questi episodi il reggimento Savoia Cavalleria compì quella che è probabilmente una delle ultime cariche all’arma bianca della storia, quando alla fine dell’estate riuscì a catturare alcune centinaia di prigionieri al prezzo di alcune decine di morti.

Ma con l’arrivo dell’inverno l’avanzata si arrestò.
Prima il fango e poi il freddo costrinsero gli eserciti dell’Asse a fermarsi e a subire il contrattacco dei russi.
Dotati di equipaggiamenti inadeguati o comunque usurati dalla rapida avanzata dell’estate precedente, gli italiani subirono qualche perdita e furono costretti a piccoli arretramenti, ma sostanzialmente tennero le posizioni.

 

Visto il buon comportamento del C.S.I.R., su richiesta dell’alto comando tedesco, Mussolini decise il potenziamento della presenza italiana in Russia.

Il 21 febbraio 1942 giunse in Russia il primo reparto alpino: il battaglione alpini sciatori Monte Cervino.

Il 1° maggio 1942 venne costituita l’8a Armata italiana, l’ossatura dell’Armata Italiana in Russia (ARM.I.R.) ed il comando venne assunto dal Generale Gariboldi, con una forza totale di 230.000 uomini.

Sotto la denominazione ARM.I.R. furono comprese tutte le unità italiane operanti sul fronte russo, comprese unità aeronautiche e marittime, invece l’8a Armata italiana fu una ben definita ed organica unità operativa dislocata sul fronte del Don.

 

L’organico prevedeva:

  • le Divisioni già inquadrate nel C.S.I.R., che assunse il nome di XXXV Corpo d’Armata (Pasubio, Torino e Celere),
  • le Divisioni Sforzesca, Ravenna, Cosseria e il Raggruppamento CC.NN. “23 Marzo” con i Gruppi Leonessa e Valle Scrivia, inquadrati nel II Corpo d’Armata
  • le Divisioni Julia, Cuneense e Tridentina, costituenti il Corpo d’Armata Alpino, inizialmente destinato ad operare sulle montagne del Caucaso.
    A queste forze si sarebbe poi aggiunta la Divisione Vicenza, formata da due soli reggimenti di fanteria, con compiti di presidio nei territori occupati.

La partenza del Corpo d’Armata Alpino per il fronte russo incominciò alla metà di luglio del 1942.
Il 17 luglio lasciavano Trento 57.000 uomini, 15.000 quadrupedi (per lo più muli) e un migliaio di automezzi.

A fine luglio giunsero a Nowo Gorlowka e il 15 agosto cominciò il trasferimento verso il loro obiettivo, la zona montagnosa del  Caucaso, alle dipendenze della 17a Armata tedesca.

Mentre la grande unità alpina effettuava il trasferimento verso il Caucaso, a sorpresa il 19 agosto giunse l’ordine di invertire la marcia e di passare alle dipendenze dell’8a Armata italiana e di raggiungere il fronte del Don, ove il nemico nel settore del XXXV C. d’A. (ex C.S.I.R.), nel tratto presidiato dalla Sforzesca aveva rotto la linea di difesa penetrando in profondità nella direzione di Kotovskij-Bolshoj.

Ordini contrastanti posizionavano le truppe alpine in posizioni sempre diverse in aiuto e supporto  ad altri reparti combattenti..

I tedeschi seppero nel corso del 1942 approntare un equipaggiamento invernale adeguato, prendendo a modello quello russo, mentre l’ARMIR non potè nemmeno contare sull’abbondanza di materiali che il CSIR aveva conosciuto.
Nulla fu fatto in due anni di guerra per dotare i reparti di calzature adatte: i soldati italiani erano gli unici a sfoggiare scarponi chiodati (gli stessi in distribuzione alle truppe in Africa) in un clima in cui il ghiaccio si formava immediatamente tra i chiodi delle suole.
Nulla fu fatto per sostituire le pellicce (ingombranti e poco igieniche) con tute imbottite del genere di quelle russe.
Nulla fu fatto per dotare le armi automatiche di un lubrificante che non temesse il gelo: le mitragliatrici sparavano solo se tenute nei rifugi o se avvolte in coperte o se ogni tanto si faceva partire una raffica per tenerle calde.
Gli automezzi erano gli stessi in uso in Africa, mancavano spazzaneve e mezzi cingolati, i muli non sopportavano il freddo e la neve alta.
E il nostro elenco potrebbe continuare: l’esperienza del CSIR non ebbe alcuna conseguenza, le divisioni italiane che a luglio 1942 partirono per la Russia per costituire l’ARMIR, erano con un equipaggiamento totalmente inadeguato.

Le deficienze che abbiamo segnalato non hanno bisogno di documentazione, perchè tutte le opere (studi e memorie) lo registrano, pur senza inquadrarle adeguatamente.

Quando con il bel tempo del 1942 la campagna riprese, gli italiani si trovarono al centro dell’azione, poiché Hitler aveva deciso che la principale direttrice della nuova avanzata sarebbe stata quella meridionale, attraverso l’Ucraina puntando verso Stalingrado e i giacimenti petroliferi del Caucaso.

Al CSIR diventato ARMIR (al regime fascista piacevano molto le sigle: significava Armata Italiana in Russia) venne affidato, insieme agli alleati rumeni e ungheresi, il compito di sorvegliare il fianco sinistro della Sesta Armata tedesca, l’enorme unità composta da più di 300 mila uomini che nell’estate del 1942 stava iniziando a concentrarsi attorno Stalingrado.

Mentre a Stalingrado era in corso quella che sarebbe diventata una delle più grandi battaglie della Seconda guerra mondiale, le linee italiane rimasero tranquille per gran parte del 1942.

Nell’inverno del 1942, l’8a Armata italiana era schierata lungo il corso del fiume Don da Babka, limite nord del settore, a Vescenskaja a sud, dove si trovava la 3a Armata Romena.

A nord, l’Armata Italiana era collegata con la 2a Armata ungherese. Il suo fronte si snodava lungo il fiume Don per 270 chilometri.

Ma dall’inizio dell’inverno 1942, i russi scelsero proprio le posizioni occupate da italiani e rumeni per contrattaccare.

Fino a metà dicembre, sul fronte tenuto dagli italiani, non si ebbero combattimenti di rilievo.

Il 15 dicembre 1942, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri, né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est.
Esse dovettero sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e prigionieri.

 

Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato. A difesa del suo fianco destro, in corrispondenza del settore della Cosseria ormai completamente scoperto, venne spostata la Divisione Julia.

Da metà dicembre le Penne Nere della Julia per un mese (fino al 7 gennaio 1943) combatterono disperatamente in campo aperto e senza ripari adeguati, superando di gran lunga ogni credibile limite di resistenza umana, sacrificando i loro reparti per fermare e contenere la spinta poderosa e violentissima dei Russi sostenuti dall’alleato inverno.

Il bollettino di guerra del comando tedesco del 29 dicembre 1942 diede ampio ed espresso elogio alla Julia riconoscendo il valore degli alpini: “Sul fronte del medio Don si è particolarmente distinta la Divisione Alpina Julia”.

Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d’Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.

Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un’unica alternativa: il ripiegamento immediato.
La sera del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.
Ad essa fu affidato il duro compito di rompere l’accerchiamento e ritrovare la via per l’Italia, mentre le divisioni CuneenseJuliaVicenza furono praticamente distrutte e dopo 100 chilometri di ritirata i comandanti e gli altri alpini superstiti furono catturati nei pressi di Waluiki il 27 gennaio.

Le linee cedettero, il fronte si spezzò e Stalingrado venne circondata dai russi, mentre il resto dell’esercito dell’asse (soprattutto l’esercito italiano) fu costretto a retrocedere in una lunga e terribile ritirata che sarebbe finita soltanto nella primavera del 1943, circa seicento chilometri più a occidente.

La marcia del Corpo d’Armata Alpino verso la salvezza fu un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato da innumerevoli episodi di valore, di grande solidarietà, in cui circa 40.000 uomini si batterono disperatamente, senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri.

Frattanto la colonna si ingrossava via via, allungandosi fino a 40 chilometri, inglobando reparti sbandati di ogni specie: Ungheresi, Tedeschi, fanti della Divisione Vicenza, tutti reduci dai tratti di fronte perduti.

Fu così che dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka.

Forti del tradizionale spirito di corpo gli alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.

Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché attorno all’abitato e che costituiva un’ottima protezione per il nemico. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una divisione.

Verso le ore 9.30 venne ordinato di attaccare.

In un primo tempo si lanciarono all’assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II Battaglione misto genio della Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi.

La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le prime isbe dell’abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici, ma le perdite furono gravissime per il violento fuoco dei Russi.

Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini continuarono a combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.

La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di rinforzi.

Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione L’Aquila: anch’essi vennero inviati nel cuore della battaglia.

Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul campanile della chiesa c’era una mitragliatrice che faceva strage di alpini. La neve era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti.

Nonostante gli innumerevoli atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al cosciente sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e l’esito della battaglia era non del tutto scontato.
La situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.

Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di “Tridentina avanti!” trascinava i suoi alpini all’assalto.

Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò sulle labbra da un alpino all’altro, scosse la massa enorme degli sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica.

I Russi sorpresi dalla rapidità dell’azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali.

 

Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere.

Questa ritirata attraverso la steppa è stata raccontata da numerosi romanzi di grande successo, come “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi, e “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern o film come “Italiani brava gente” di Giuseppe De Santis.

Dopo Nikolajewka la marcia degli sbandati proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti.

Il 31 gennaio 1943 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.

Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali, poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.

La colonna dei disperati riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel, 30 km a sud di Minsk, in Bielorussia, il 1° marzo.

Gli alpini percorsero a piedi 700 km e solamente alcuni nell’ultimo tratto poterono usufruire del trasporto in ferrovia.

 

Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel e da Minsk le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d’Armata Alpino, del XXXV Corpo d’Armata e del II Corpo d’Armata.

Entro fine marzo quasi tutti furono in Patria.

Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17.
Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.

Le perdite disastrose subite dal Corpo degli Alpini non si sono ripetute fortunatamente nelle altre divisioni dell’ARMIR perché in posizioni più arretrate rispetto al fronte di attacco russo, perché iniziarono prima la ritirata e poterono puntare verso il centro di raccolta di Gomel e Minsk in Bielorussia, senza subire gli incessanti attacchi russi.

 

Il bilancio dell’operazione “Russia” fu spaventoso, e l’Italia pagò un prezzo altissimo per la sua decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia.

Trentamila soldati rimasero feriti, altri 80.000 furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri.
100.000 disperati furono costretti a una ritirata disumana in un deserto di ghiaccio.

Di questi ultimi, moltissimi morirono nelle terribili marce compiute nella neve gelida verso i campi di prigionia, oppure di stenti e di malattia una volta giunti a destinazione.
Di circa altri 75.000 soldati non si seppe più nulla.

I termini “russo” e  “ucraino”, in questo periodo si equivalgono, perché l’Ucraina non era una repubblica autonoma, ma era parte del territorio russo, anche se era presente una certa rivalità tra russi e ucraini.

I nomi delle località e alcuni termini ucraini riportati nel testo, possono non essere precisi e storpiati.
Mio padre scrisse queste memorie all’età di 88 anni, cioè circa 65 anni dopo gli eventi.

Inoltre dopo il 1950 i nomi di molte città sono cambiati:
Belcy =  Balti
Voroscilovgrad = Lugansk
Stalino = Doneck
Dnipropetrovs’k = Dnipro
Debalzeu = Debal’ceve
Rikowo = Jenakijeve.

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Libro pubblicato nel 2008, a cura di Giuseppe Piraino, per conto del Comune di Vallelunga Pratameno.